I Vescovi italiani, nell’Assemblea generale conclusasi ieri ad Assisi, hanno approvato la bozza del nuovo Rito delle esequie (se ne veda la notizia riportata da ZENIT). In tale nuovo Rito è prevista anche la possibilità di esequie anche a coloro che scelgono la cremazione.
Non si tratta di una novità: la Chiesa aveva già da tempo ammesso la cremazione, a condizione che non fosse dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana. Il fatto è che, finora, tale concessione sembrava solo una possibilità ipotetica, riservata a qualche tipo un po’ eccentrico. Ora invece sta diventando una prassi sempre piú diffusa. Ecco le cifre riportate da ZENIT: «In vent’anni si è passati dalle 3.600 cremazioni del 1987 alle quasi 60.000 del 2007».
È ovvio che la Chiesa non può rimanere indifferente di fronte ai fenomeni di massa come questo; è ovvio che deve in qualche modo intervenire, dando delle direttive e fissando dei paletti. In questo caso, la Chiesa italiana si era già pronunciata due anni fa con il sussidio pastorale Proclamiamo la tua risurrezione; ora interviene di nuovo con il Rito delle esequie. I Vescovi pongono dei limiti precisi: le ceneri non possono essere disperse e non possono essere conservate «in luoghi diversi dal cimitero». Mi pare il minimo, per potersi dire ancora cristiani.
Eppure, nonostante queste precise indicazioni, confesso che le nuove norme mi lasciano alquanto perplesso. Perché? Perché segnano una rottura con una ininterrotta tradizione. Non dimentichiamo che il Cristianesimo è nato in un tempo in cui l’incenerimento era prassi comune; eppure i cristiani scelsero l’inumazione, perché tale uso esprimeva meglio la loro fede nella risurrezione. Avrebbero potuto anche loro fare qualche “contorsione” teologica; ma non la fecero, perché il seppellimento del corpo era un segno che parlava da sé. I segni — lo sappiamo — sono di solito molto piú eloquenti di tanti giri di parole.
Ecco dove sta il problema: la nuova linea adottata dalla Chiesa, pur essendo teoricamente corretta, rischia di favorire il processo di secolarizzazione e “ripaganizzazione” della società. Accettare la cremazione, pur con tutte le precisazioni e i distinguo, trasmette un messaggio ben chiaro: non esiste risurrezione; dalla natura veniamo e alla natura torniamo.
Ma allora, che fare di fronte alla diffusione della cremazione anche fra i cattolici? So bene che si tratta di un fenomeno incontrollabile. Quando ero nelle Filippine mi sono reso conto che ormai tale pratica è diffusa anche fra il clero. Un giorno, al termine della Messa, rimasi interdetto, quando una signora, con un fagottino sotto braccio, mi chiese di benedire le ceneri del marito. Ma non credo che sia saggio limitarsi semplicemente a prendere atto della situazione; in qualche caso bisogna reagire, come fecero i primi cristiani. “Bisogna evangelizzare”, si dice. Certo, ma non si evangelizza solo con le parole; spesso un segno, un gesto, una pratica sono molto piú efficaci di tante prediche. Certa timidezza pastorale non paga; qualche volta, forse, dovremmo avere il coraggio di prendere posizioni nette e controcorrente anche di fronte a questioni apparentemente secondarie.
Non si tratta di una novità: la Chiesa aveva già da tempo ammesso la cremazione, a condizione che non fosse dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana. Il fatto è che, finora, tale concessione sembrava solo una possibilità ipotetica, riservata a qualche tipo un po’ eccentrico. Ora invece sta diventando una prassi sempre piú diffusa. Ecco le cifre riportate da ZENIT: «In vent’anni si è passati dalle 3.600 cremazioni del 1987 alle quasi 60.000 del 2007».
È ovvio che la Chiesa non può rimanere indifferente di fronte ai fenomeni di massa come questo; è ovvio che deve in qualche modo intervenire, dando delle direttive e fissando dei paletti. In questo caso, la Chiesa italiana si era già pronunciata due anni fa con il sussidio pastorale Proclamiamo la tua risurrezione; ora interviene di nuovo con il Rito delle esequie. I Vescovi pongono dei limiti precisi: le ceneri non possono essere disperse e non possono essere conservate «in luoghi diversi dal cimitero». Mi pare il minimo, per potersi dire ancora cristiani.
Eppure, nonostante queste precise indicazioni, confesso che le nuove norme mi lasciano alquanto perplesso. Perché? Perché segnano una rottura con una ininterrotta tradizione. Non dimentichiamo che il Cristianesimo è nato in un tempo in cui l’incenerimento era prassi comune; eppure i cristiani scelsero l’inumazione, perché tale uso esprimeva meglio la loro fede nella risurrezione. Avrebbero potuto anche loro fare qualche “contorsione” teologica; ma non la fecero, perché il seppellimento del corpo era un segno che parlava da sé. I segni — lo sappiamo — sono di solito molto piú eloquenti di tanti giri di parole.
Ecco dove sta il problema: la nuova linea adottata dalla Chiesa, pur essendo teoricamente corretta, rischia di favorire il processo di secolarizzazione e “ripaganizzazione” della società. Accettare la cremazione, pur con tutte le precisazioni e i distinguo, trasmette un messaggio ben chiaro: non esiste risurrezione; dalla natura veniamo e alla natura torniamo.
Ma allora, che fare di fronte alla diffusione della cremazione anche fra i cattolici? So bene che si tratta di un fenomeno incontrollabile. Quando ero nelle Filippine mi sono reso conto che ormai tale pratica è diffusa anche fra il clero. Un giorno, al termine della Messa, rimasi interdetto, quando una signora, con un fagottino sotto braccio, mi chiese di benedire le ceneri del marito. Ma non credo che sia saggio limitarsi semplicemente a prendere atto della situazione; in qualche caso bisogna reagire, come fecero i primi cristiani. “Bisogna evangelizzare”, si dice. Certo, ma non si evangelizza solo con le parole; spesso un segno, un gesto, una pratica sono molto piú efficaci di tante prediche. Certa timidezza pastorale non paga; qualche volta, forse, dovremmo avere il coraggio di prendere posizioni nette e controcorrente anche di fronte a questioni apparentemente secondarie.