David fa, come al solito, considerazioni molto interessanti sul fenomeno dell’immigrazione:
«Per dire due parole sulle migrazioni, voglio partire da un... tubero! Nel 1846 la Vergine a La Salette fece una profezia: “Le patate marciranno sotto terra”. Nel 1847 la peronospora, un parassita venuto dall’America, distrusse il raccolto del prezioso alimento in tutta l’Europa. Per chi aveva cereali, legumi e vino di cui cibarsi, la perdita fu grave ma non devastante. Per gli Irlandesi, che si nutrivano da generazioni con 5/6 chili di patate (miste a latte) al giorno, significò la piú grave carestia della loro storia. Per cinque anni l’isola verde fu spazzata dalla fame (la “Grande Carestia”, appunto), dalle epidemie e... dall’indifferenza dei padroni, gli Inglesi, che colsero l’occasione per applicare in modo integrale la dottrina malthusiana: non hanno cibo perché sono troppi, sono troppi perché fanno troppi figli, ergo lasciamo che la natura faccia il suo corso... A dire il vero, Londra non rimase del tutto indifferente, cosí come le organizzazioni internazionali e le grandi corporation non sono del tutto sorde alle miseria di certe aree del Terzo Mondo: il Parlamento approvò la cosí detta “Poor Law”, che obbligava i contadini irlandesi a cedere le loro terre per ottenere aiuti utili alla mera sussistenza. Chissà se non fischiano le orecchie a certi fautori di campagne di aiuti umanitari o investitori nell’Africa sub-sahariana... Il risultato fu che l’isola, che aveva una popolazione di 8,2 milioni di persone nel 1841, perse il 25% degli abitanti nel giro di dieci anni e altri quattro milioni nei due decenni successivi. Carestia, sfruttamento, insensata lotta al sovrappopolamento: sono realtà che da due generazioni molti Paesi africani e asiatici conoscono bene. La conseguenza è la stessa che per gli Irlandesi nell’Ottocento: milioni di persone allora si spostarono soprattutto verso gli Stati Uniti, producendo un colossale “shock” per un Paese allora a stragrande maggioranza WASP: White, AngloSaxon and Protestant. Gli Irlandesi, seguiti poi da Italiani e Polacchi, determinarono un radicale cambiamento negli States: apparvero le prime chiese cattoliche, i primi monasteri e infine i primi santuari mariani sulla costa orientale. Oggi, si ha spesso l’impressione che l’immigrazione debba comportare per forza di cose una islamizzazione dei Paesi ospiti. E poi un aumento del tasso di criminalità. Sull’islamizzazione, credo che cozzi contro le cifre vere del fenomeno: la grande maggioranza degli immigrati provengono da Paesi di religione ortodossa (Romania, Russia, Ucraina) o cattolica (Filippine, Polonia, Croazia e Sud America), mentre gli arabi islamici sono soprattutto concentrati in alcune aree (Nord-Ovest dell’Italia, Paesi Bassi, Sud del Regno Unito, Parigi) dove la stupidità di certi politici ha concesso loro privilegi non dovuti e spesso nemmeno richiesti. Altro è il discorso circa la criminalità. A costo di attirarmi le ire dei lettori del Sud, voglio dire che il Centro-Nord dell’Italia aveva già perduto la sua tranquillità con le grandi migrazioni dal Mezzogiorno, che avevano riversato — in mezzo a milioni di campani, calabresi, siciliani e pugliesi onesti — gran parte della feccia della criminalità meridionale nei capoluoghi industriali del Nord. È inutile nascondersi dietro un dito: le organizzazioni mafiose cinesi, russe, nigeriane e marocchine hanno tratto gli stessi vantaggi che a suo tempo conseguirono la Camorra, Cosa Nostra e la Ndrangheta. Ora, parlare di accoglienza in uno scenario come questo, non è facile e a prima vista appare anche una scelta coraggiosa. Ma non sempre è una scelta in favore dei Paesi di origine delle migrazioni: è mia opinione che la Chiesa cattolica tratti spesso questi fenomeni solo dal punto di vista del “grande uomo bianco”. Sí, perché per l’Irlanda la perdita di tre quarti della propria popolazione significò la condanna a uno stato di perenne depressione e di sottosviluppo, che si è allentato per una ventina di anni, fino alla crisi del 2008. Piccola, povera e davvero isolata, l’Irlanda ha cattolicizzato il mondo, ma a un prezzo altissimo. Lo stesso discorso vale per i giorni nostri: l’ingegnere egiziano che fa il pizzaiolo a Napoli o che arrostisce salsicciotti a Central Park magari riesce a inviare delle rimesse a casa, ma rappresenta pur sempre una sconfitta per il suo Paese, che lo ha cresciuto e educato per ben altri compiti. Il rientro in patria degli emigranti italiani, una volta giunti all’età della pensione, ovvero il ritorno in India di ingegneri e tecnici informatici di fronte al boom della Sylicon Valley indiana sono, a dire il vero, il segno che l’emigrazione, lungi da essere un segno di speranza, rappresenta solo una soluzione transitoria fuori dalla disperazione. Forse dovremmo leggere di piú le Scritture sull’esilio degli Ebrei a Babilonia e pensare quanto in fondo “sa di sale lo pane altrui”».
È sempre bene considerare le cose da diversi punti di vista, perché in tal modo se ne scoprono aspetti, che altrimenti rimarrebbero nascosti. Penso comunque che qui non si tratta tanto di esprimere un giudizio di valore sulle migrazioni: se esse siano opportune o no. Esse sono una realtà, di cui dobbiamo prendere atto. Come dicevo ieri, in tutte le cose possiamo scoprire aspetti positivi e negativi (nell’esperienza irlandese, l’aspetto positivo è stato la “cattolicizzazione” degli Stati Uniti; l’aspetto negativo, la depressione di quel paese fino ai nostri giorni). La preoccupazione della Chiesa non è tanto quella di esprimere giudizi di valore sui fenomeni storici, quanto quella di “umanizzare” certe situazioni, che non dipendono da essa: ecco il discorso dell’accoglienza. Certo, sarebbe bello che tutti potessero restare a casa loro, e cosí contribuire allo sviluppo del proprio paese. Forse, come abbiamo detto altre volte, la Chiesa non dovrebbe limitarsi a esortare all’accoglienza; dovrebbe farsi anche promotrice di progresso in loco (e in parte già lo fa). Ma intanto deve fare i conti con una realtà esistente, di fronte alla quale non può rimanere indifferente; e lo fa non solo invitando all’accoglienza, ma anche cercando di trasformare, come dicevamo ieri, quello che potrebbe sembrare solo un problema in un’opportunità.
Pienamente d’accordo sulla stupidità di certi politici: andatevi a leggere questa storia incredibile sul Sussidiario di oggi.
«Per dire due parole sulle migrazioni, voglio partire da un... tubero! Nel 1846 la Vergine a La Salette fece una profezia: “Le patate marciranno sotto terra”. Nel 1847 la peronospora, un parassita venuto dall’America, distrusse il raccolto del prezioso alimento in tutta l’Europa. Per chi aveva cereali, legumi e vino di cui cibarsi, la perdita fu grave ma non devastante. Per gli Irlandesi, che si nutrivano da generazioni con 5/6 chili di patate (miste a latte) al giorno, significò la piú grave carestia della loro storia. Per cinque anni l’isola verde fu spazzata dalla fame (la “Grande Carestia”, appunto), dalle epidemie e... dall’indifferenza dei padroni, gli Inglesi, che colsero l’occasione per applicare in modo integrale la dottrina malthusiana: non hanno cibo perché sono troppi, sono troppi perché fanno troppi figli, ergo lasciamo che la natura faccia il suo corso... A dire il vero, Londra non rimase del tutto indifferente, cosí come le organizzazioni internazionali e le grandi corporation non sono del tutto sorde alle miseria di certe aree del Terzo Mondo: il Parlamento approvò la cosí detta “Poor Law”, che obbligava i contadini irlandesi a cedere le loro terre per ottenere aiuti utili alla mera sussistenza. Chissà se non fischiano le orecchie a certi fautori di campagne di aiuti umanitari o investitori nell’Africa sub-sahariana... Il risultato fu che l’isola, che aveva una popolazione di 8,2 milioni di persone nel 1841, perse il 25% degli abitanti nel giro di dieci anni e altri quattro milioni nei due decenni successivi. Carestia, sfruttamento, insensata lotta al sovrappopolamento: sono realtà che da due generazioni molti Paesi africani e asiatici conoscono bene. La conseguenza è la stessa che per gli Irlandesi nell’Ottocento: milioni di persone allora si spostarono soprattutto verso gli Stati Uniti, producendo un colossale “shock” per un Paese allora a stragrande maggioranza WASP: White, AngloSaxon and Protestant. Gli Irlandesi, seguiti poi da Italiani e Polacchi, determinarono un radicale cambiamento negli States: apparvero le prime chiese cattoliche, i primi monasteri e infine i primi santuari mariani sulla costa orientale. Oggi, si ha spesso l’impressione che l’immigrazione debba comportare per forza di cose una islamizzazione dei Paesi ospiti. E poi un aumento del tasso di criminalità. Sull’islamizzazione, credo che cozzi contro le cifre vere del fenomeno: la grande maggioranza degli immigrati provengono da Paesi di religione ortodossa (Romania, Russia, Ucraina) o cattolica (Filippine, Polonia, Croazia e Sud America), mentre gli arabi islamici sono soprattutto concentrati in alcune aree (Nord-Ovest dell’Italia, Paesi Bassi, Sud del Regno Unito, Parigi) dove la stupidità di certi politici ha concesso loro privilegi non dovuti e spesso nemmeno richiesti. Altro è il discorso circa la criminalità. A costo di attirarmi le ire dei lettori del Sud, voglio dire che il Centro-Nord dell’Italia aveva già perduto la sua tranquillità con le grandi migrazioni dal Mezzogiorno, che avevano riversato — in mezzo a milioni di campani, calabresi, siciliani e pugliesi onesti — gran parte della feccia della criminalità meridionale nei capoluoghi industriali del Nord. È inutile nascondersi dietro un dito: le organizzazioni mafiose cinesi, russe, nigeriane e marocchine hanno tratto gli stessi vantaggi che a suo tempo conseguirono la Camorra, Cosa Nostra e la Ndrangheta. Ora, parlare di accoglienza in uno scenario come questo, non è facile e a prima vista appare anche una scelta coraggiosa. Ma non sempre è una scelta in favore dei Paesi di origine delle migrazioni: è mia opinione che la Chiesa cattolica tratti spesso questi fenomeni solo dal punto di vista del “grande uomo bianco”. Sí, perché per l’Irlanda la perdita di tre quarti della propria popolazione significò la condanna a uno stato di perenne depressione e di sottosviluppo, che si è allentato per una ventina di anni, fino alla crisi del 2008. Piccola, povera e davvero isolata, l’Irlanda ha cattolicizzato il mondo, ma a un prezzo altissimo. Lo stesso discorso vale per i giorni nostri: l’ingegnere egiziano che fa il pizzaiolo a Napoli o che arrostisce salsicciotti a Central Park magari riesce a inviare delle rimesse a casa, ma rappresenta pur sempre una sconfitta per il suo Paese, che lo ha cresciuto e educato per ben altri compiti. Il rientro in patria degli emigranti italiani, una volta giunti all’età della pensione, ovvero il ritorno in India di ingegneri e tecnici informatici di fronte al boom della Sylicon Valley indiana sono, a dire il vero, il segno che l’emigrazione, lungi da essere un segno di speranza, rappresenta solo una soluzione transitoria fuori dalla disperazione. Forse dovremmo leggere di piú le Scritture sull’esilio degli Ebrei a Babilonia e pensare quanto in fondo “sa di sale lo pane altrui”».
È sempre bene considerare le cose da diversi punti di vista, perché in tal modo se ne scoprono aspetti, che altrimenti rimarrebbero nascosti. Penso comunque che qui non si tratta tanto di esprimere un giudizio di valore sulle migrazioni: se esse siano opportune o no. Esse sono una realtà, di cui dobbiamo prendere atto. Come dicevo ieri, in tutte le cose possiamo scoprire aspetti positivi e negativi (nell’esperienza irlandese, l’aspetto positivo è stato la “cattolicizzazione” degli Stati Uniti; l’aspetto negativo, la depressione di quel paese fino ai nostri giorni). La preoccupazione della Chiesa non è tanto quella di esprimere giudizi di valore sui fenomeni storici, quanto quella di “umanizzare” certe situazioni, che non dipendono da essa: ecco il discorso dell’accoglienza. Certo, sarebbe bello che tutti potessero restare a casa loro, e cosí contribuire allo sviluppo del proprio paese. Forse, come abbiamo detto altre volte, la Chiesa non dovrebbe limitarsi a esortare all’accoglienza; dovrebbe farsi anche promotrice di progresso in loco (e in parte già lo fa). Ma intanto deve fare i conti con una realtà esistente, di fronte alla quale non può rimanere indifferente; e lo fa non solo invitando all’accoglienza, ma anche cercando di trasformare, come dicevamo ieri, quello che potrebbe sembrare solo un problema in un’opportunità.
Pienamente d’accordo sulla stupidità di certi politici: andatevi a leggere questa storia incredibile sul Sussidiario di oggi.