Articolo pubblicato sul n. 4/2010 (ottobre-dicembre 2010) dell’Eco dei Barnabiti, pp. 11-12, per la rubrica “Osservatorio ecclesiale”.
Uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II sono state, senza dubbio, le due giornate di preghiera per la pace organizzate ad Assisi rispettivamente nel 1986 e nel 2002. Sembrava che quegli incontri avessero inaugurato una nuova epoca nella storia della Chiesa. Si parlava dello “spirito di Assisi” come di un nuovo modo di essere, che avrebbe dovuto contrassegnare da allora in poi il cammino della Chiesa.
A quegli incontri era assente uno dei prelati più influenti della Curia Romana, nientepopodimeno che il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il Card. Joseph Ratzinger. Egli non nascose le sue perplessità sull’opportunità di quella iniziativa, che avrebbe potuto costituire una sorta di legittimazione della visione relativistica secondo cui tutte le religioni si equivalgono. Nel caso della seconda giornata era perlomeno riuscito a ottenere che gli appartenenti alle diverse religioni non pregassero insieme, ma ciascun gruppo lo facesse separatamente. Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger è diventato Papa Benedetto XVI; e da allora non ci sono state, come era prevedibile, nuove giornate di Assisi. Incontri similari, che pure si sono svolti negli ultimi anni, sono stati promossi da qualche gruppo ecclesiale di base (p. es. la Comunità di Sant’Egidio).
Il Card. Ratzinger aveva espresso alcune riserve anche a proposito del dialogo interreligioso, riserve da lui confermate anche dopo l’elezione al supremo pontificato. Lo ha fatto non in un documento ufficiale, ma in una lettera privata, indirizzata al Senatore Marcello Pera, il quale l’ha pubblicata in apertura del suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondatori, Milano, 2008). In essa il Pontefice con grande lucidità afferma:
«Un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».
A rigor di termini, dunque, secondo Benedetto XVI, un dialogo interreligioso che avesse pretese teologiche non è praticabile, perché condannato alla sterilità: su che cosa ci si può mettere d’accordo, quando sul piano teologico non si ha nulla in comune? È diverso il caso del dialogo ecumenico con i fratelli cristiani non cattolici: in quel caso abbiamo qualcosa che ci accomuna (la stessa fede), sebbene ci possano essere molteplici punti, anche di un certo rilievo, che ci separano. Con le altre religioni non possiamo dire che abbiamo in comune lo stesso Dio (questione problematica anche nel rapporto con le cosiddette religioni “monoteistiche”; figuriamoci quando si tratta di dialogare con le religioni orientali); non basta essere contro l’ateismo o l’indifferentismo contemporanei per trovare un punto comune con le altre tradizioni religiose.
Il fatto che non sia possibile un dialogo teologico con le religioni, non significa però che non si possa stabilire con loro alcun tipo di dialogo. È per questo che Benedetto XVI parla di “dialogo interculturale”: è proprio sul piano culturale o, se vogliamo, razionale che è possibile incontrarsi con coloro che non condividono la nostra stessa fede. Nella sua lettera al Sen. Pera il Papa auspica un “confronto pubblico” sulle “conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo”: ciascuna religione dà origine a una cultura; ogni popolo possiede una sua cultura; ebbene, il dialogo fra tali culture è non solo possibile, ma necessario, perché da esso possono derivare “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole”.
Quali sono le premesse “ideologiche” (in senso positivo) di questo atteggiamento di Benedetto XVI? Probabilmente l’esperienza del cristianesimo delle origini. Il cristianesimo nacque all’interno di una determinata cultura, quella giudaica; ma ben presto, pur conservando alcuni tratti caratteristici di quella matrice, se ne distaccò confrontandosi con una nuova cultura, quella ellenistica. Si noti: il cristianesimo non intraprese un dialogo con le religioni pagane allora diffuse; ma non si fece scrupolo di confrontarsi con l’ellenismo, al punto di assumerne le categorie culturali e utilizzarle per esprimere la propria fede. Oggi parleremmo di un processo di “inculturazione” perfettamente riuscito (sull’incontro fra cristianesimo ed ellenismo si veda il magistrale discorso di Benedetto XVI a Ratisbona del 12 settembre 2006).
Uno sforzo più o meno simile fu tentato nei secoli successivi, anche se non con lo stesso successo. Quando, nel XIII secolo, san Tommaso d’Aquino si trovò di fronte ai musulmani e ai pagani del suo tempo, al fine di dare una fondazione razionale alle verità della fede cristiana, scrisse la Summa contra gentiles. Quando, nel Seicento, Matteo Ricci si recò in Cina, non teorizzò un dialogo con tutte le religioni ivi esistenti (per esempio, si oppose risolutamente al taoismo e al buddismo); ma si rese conto che con il confucianesimo, forse per il suo carattere più etico-civile che religioso, era non solo possibile ma necessario stabilire un confronto.
È ovvio che tutti gli uomini, al di là delle differenze culturali e religiose, possiedono una stessa natura, possono ritrovarsi su un terreno comune, che è quello della ragione; ed è a questo livello che possono e debbono dialogare per “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole”. Oltre a ciò gli uomini appartenenti alle diverse religioni potranno accordarsi per perseguire obiettivi concreti in vari campi, quali la difesa della vita, la salvaguardia del creato, la lotta per la giustizia, lo sviluppo della società civile, la promozione della pace, ecc.
Proprio perché il terreno di incontro è quello della ragione, comune non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini, tale tipo di dialogo è esteso anche a coloro che affermano di non professare alcuna religione. Nel passato ci si compiaceva di presentarsi come “atei”; oggi si preferisce piuttosto definirsi “agnostici”; ma il risultato non cambia. Quale deve essere l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei non-credenti? Solitamente oggi parliamo, a questo proposito, di “nuova evangelizzazione” (a proposito, è stato appena costituito un “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”). Ma giustamente Benedetto XVI faceva notare un anno fa:
«Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi … Dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cf Is 56:7; Mc 11:17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio … Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto» (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2009).
Il “nuovo corso” inaugurato da Benedetto XVI dunque non ci invita, come qualcuno potrebbe credere, a sottrarci al confronto con l’esterno e a chiuderci in una specie di “torre d’avorio”. Esso piuttosto ci stimola ad aprici ancora di più verso chi cristiano non è. Il Papa addirittura auspica che si apra un “cortile dei gentili”, vale a dire uno spazio d’incontro, all’interno della stessa Chiesa. Ciò che gli sta a cuore è che il dialogo, per essere autentico, deve rispettare alcune regole fondamentali:
— esso deve, innanzi tutto, avvenire nella chiarezza, senza confusioni o falsi irenismi;
— non deve nascondere, ma semmai sottolineare l’identità specifica di ciascuno dei dialoganti;
— deve svolgersi sull’unico terreno dove tutti si possono ritrovare, quello della comune umanità.