martedì 14 aprile 2009

Incarnare il Concilio

Ho ritrovato fra le mie carte un articolo scritto più di trent'anni fa, quando ero ancora giovane studente di teologia, per Parola, il "Giornale dell'ASPUST" (= Associazione Studenti della Pontificia Università San Tommaso). È datato "Pentecoste 1978", dunque un paio di mesi prima della morte di Paolo VI. Lo trovo interessante, non solo perché testimonianza delle attese, delle illusioni e delle tensioni che si vivevano in quegli anni di fuoco, ma anche perché espressione di quanto pensavo a quell'epoca a proposito del Concilio Vaticano II (terminato da poco più di una dozzina d'anni). Permettete che ne riprenda alcuni passaggi. Era intitolato: Una nuova generazione?


Mi pare che si debba riconoscere con molta sincerità e serenità che gli studenti di oggi non sono più quelli di ieri, che la generazione attuale è molto diversa da quella che l'ha immediatamente preceduta.

Gli studenti di qualche anno fa erano molto più "impegnati", più combattivi, più contestatori, in affannosa ricerca del nuovo, più "progressisti". Ora invece assistiamo a un'ondata di riflusso, per cui la generazione odierna è molto più calma, più tranquilla, maggiormente disposta ad accettare il passato, in una sola parola più "conservatrice". Che dire? Credo che non si possa e non si debba giungere a un'opposizione tra generazioni. Purtroppo spesso accade che i nostri predecessori si sentano un po' come traditi da noi, hanno l'impressione di ritrovarsi da soli, stretti fra due morse, quella dei vecchi che hanno contestato e quella dei più giovani che li contestano a loro volta; noi invece parecchie volte rifiutiamo in blocco tutto ciò che ha fatto la generazione precedente, perché ci ha privati di valori del passato, che sono stati travolti nella furia devastatrice della contestazione, valori di cui noi oggi sentiamo estremo bisogno.

Ora invece, secondo me, il rapporto fra le due generazioni deve essere impostato in termini non di opposizione, ma di continuità. Ciascuno di noi deve rendersi conto di non essere l'unico a posssedere la verità. Ognuno deve riconoscere di avere solo una parte di ragione. Dobbiamo imparare a scoprire negli altri, nelle loro idee, nelle loro proposte, nei loro atteggiamenti ciò che c'è di buono, e saperlo integrare nella nostra personalità, rinunciando con maturità e con coraggio a certe posizioni estremistiche ancora esistenti. È doloroso vedere come taluni siano ostinati in certi loro atteggiamenti di contestazione aprioristica del passato, come se tutto ciò che hanno fatto i nostri padri sia completamente sbagliato. Ma altrettanto, anzi assai più doloroso è vedere come alcuni si chiudano in una posizione di rifiuto totale di tutto ciò che è nuovo e di rinnegamento assoluto nei confronti della contestazione degli ultimi anni.

È necessario invece, come dicevo, scoprire i valori positivi presenti nell'una e nell'altra generazione. Dobbiamo sentirci gli eredi dei nostri compagni degli anni passati, i continuatori di quanto essi hanno fatto. Certo, dobbiamo cercare di non ripetere gli errori che hanno commesso, ma non possiamo per questo rifiutare ciò che di valido hanno scoperto e si sono sforzati di realizzare. Ma sarebbe altrettanto immaturo appostarsi sulle identiche posizioni di alcuni anni fa, come se nulla fosse cambiato e come se non ci fosse bisogno di riscoprire certi valori di cui ci si era dimenticati nella foga di distruggere tutto quanto di inautentico esisteva allora nel mondo. (...)

È ora che ci svegliamo, che incominciamo a darci da fare. La Chiesa e il mondo ci aspettano: hanno bisogno di noi. Non possiamo permetterci il lusso di adagiarci nel quieto vivere; non ci è lecito ripiegarci a rimpiangere il passato o a sognare di vivere in un mondo nel quale non viviamo. Dobbiamo accettare la realtà quale essa è, questa realtà nella quale la Provvidenza divina ci ha posti, e cercare di trasformarla secondo i disegni di Dio. Dovremmo essere immensamente riconoscenti al Signore di averci fatto la grazia di vivere in quest'epoca, che ritengo fondamentale nella storia dell'umanità. Siamo a una svolta nella storia della Chiesa e del mondo; sulle rovine del passato ormai distrutto ci viene affidato il delicato compito di costruire un mondo nuovo, quella "civiltà dell'amore" che Paolo VI ha voluto come consegna dell'Anno santo del 1975.

In questa difficile missione non siamo abbandonati alla nostra fantasia: abbiamo dei punti di riferimento precisi da cui non possiamo prescindere. Abbiamo il Vangelo e poi l'insegnamento della Chiesa, che del Vangelo non è altro che l'esplicitazione e l'applicazione al nostro tempo. Abbiamo alle spalle un concilio e tutta una serie di documenti magisteriali che sono in attesa di essere attuati. Io credo che dovremmo dare alla nostra vita proprio questo scopo, quello di mettere in atto il concilio fin nei suoi minimi particolari. Deve animarci questa certezza, che nel Vaticano II si esprime ciò che Dio vuole oggi da noi. Nel concilio è presente uno spirito che ha bisogno di incarnarsi: dobbiamo mettere a disposizione le nostre persone perché ciò si realizzi. Se non lo facciamo noi, chi dovrebbe farlo? (...)


In queste riflessioni traspare l'entusiasmo, la freschezza, forse l'ingenuità di un giovane poco più che ventenne. È chiaro che un ultracinquantenne vede le cose con più distacco e disincanto. Se avete letto il mio articolo su Concilio e "spirito del Concilio", pubblicato nel primo post di questo blog, ricorderete le mie critiche al Concilio, che tanto successo hanno riscosso tra i lefebvriani. C'è dunque stato in me un ripensamento a proposito del Vaticano II? Direi proprio di no. È ovvio che l'esperienza ti fa maturare, ti libera dall'ingenuità giovanile e ti rende più realista. Ma, allo stesso tempo, devo dire che mi ha fatto bene rileggere quell'invito a "incarnare" lo spirito del Concilio (quello vero, non quello della "Scuola di Bologna"), perché ci credo ancora.

Ci stavo pensando in questi giorni, guardando delle anziane suore in borghese. È chiaro che la crisi che la vita religiosa sta oggi attraversando è assai complessa e non può essere sbrigativamente ridotta a una questione di abbigliamento; però è significativo che gli istituti maggiormente in crisi sono proprio quelli che hanno completamente abbandonato qualsiasi segno distintivo della loro consacrazione. Nelle Filippine, dove la crisi delle vocazioni non è ancora così drammatica come in Europa e in Nord America, questo dato risalta in maniera ancor più appariscente: i nuovi istituti femminili (in genere quelli arrivati recentemente dall'Italia, che fanno normalmente uso dell'abito religioso) hanno tante vocazioni, gli istituti più antichi (quelli che, sotto l'influsso di una certa moda proveniente dall'America, hanno abbandonato l'abito) stanno subendo un invecchiamento simile alle comunità europee e americane. Anche qui, a chi può essere addebitata la colpa? Al Concilio? Ma il Concilio non ha mai detto di abbandonare l'abito religioso: "L'abito religioso, segno della consacrazione, sia semplice e modesto, povero e nello stesso tempo decoroso, come pure rispondente alle esigenze della salute e adatto sia ai tempi e ai luoghi, sia alle necessità dell'apostolato. Gli abiti dei religiosi e delle religiose che non concordano con queste norme, siano modificati" (Perfectae caritatis, n. 17). Ancora una volta, come nel caso della liturgia, i nostri guai dipendono non dal Concilio, ma da una distorta applicazione di esso (spesso, va detto, avallata dalle stesse gerarchie). Ripeto, la distorta applicazione del Concilio non riguarda solo l'uso dell'abito, ma la accomodata renovatio della vita religiosa nel suo insieme (interessante notare come l'aggettivo "accomodata" nelle traduzioni italiane sia del tutto scomparso): con la scusa del Concilio si è proceduto spesso a uno stravolgimento della vita religiosa; quando l'intento del Concilio era semplicemente quello di riportare la vita religiosa "alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti" e, nello stesso tempo, adattarla "alle mutate condizioni dei tempi" (ibid., n. 2).

Perciò mi convinco sempre più che quanto scrivevo trent'anni fa conserva ancora tutto il suo valore: "Abbiamo alle spalle un concilio e tutta una serie di documenti magisteriali che sono in attesa di essere attuati". In questi anni ci siamo agitati tanto, a destra e a sinistra, contestando il Concilio o perché era andato troppo avanti o perché era rimasto troppo indietro; ma non abbiamo fatto lo sforzo di attuarlo nella lettera e nello spirito o, come dicevo allora, "fin nei suoi minimi particolari". Non abbiamo avuto l'umiltà di accettarlo per quello che esso effettivamente era: un concilio pastorale, attraverso cui lo Spirito ci indicava come comportarci concretamente per rendere presente Cristo nel mondo d'oggi. Dunque, perché lamentarci? Stiamo semplicemente raccogliendo i frutti della nostra presunzione. Quando ci decideremo ad accogliere, con umiltà e obbedienza, le indicazioni pastorali (perché di questo si tratta) di Santa Madre Chiesa, forse sperimenteremo davvero la tanto attesa "nuova Pentecoste"...