L'altro giorno Lycopodium mi ha segnalato un articolo del teologo Marcello Neri pubblicato sul numero 6/2009 de Il Regno-Attualità (per leggerlo andate a questo link). Il titolo dell'articolo è "Fragile e inclusivo. La revoca della scomunica ai lefebvriani è possibile solo nello spirito del Concilio". L'amico lettore interpreta l'articolo come "un invito al tradizionalismo ad essere davvero della Chiesa e per la Chiesa (e agli altri a cominciare a riconoscerlo come tale)". Poi aggiunge: "Ho letto bene?".
Non è facile dare una risposta a quest'ultima domanda, dal momento che penso chiunque, anche il più raffinato intellettuale laureato alla Sorbona, giunto al termine dell'articolo, è costretto a chiedersi: Ma che significa? Non so come certi teologi non si rendano conto dell'indecifrabilità del loro periodare. Quando ero studente di teologia prima e di filosofia poi, avevo adottato questo criterio: se leggevo qualcosa e non capivo, mi dicevo: "Forse ero distratto"; e lo leggevo di nuovo. Se anche la seconda volta non riuscivo a capire, pensavo: "Forse è un tantino difficile, c'è bisogno di maggiore attenzione"; e lo leggevo un'altra volta. Se per la terza volta ottenevo lo stesso risultato, chiudevo il libro e concludevo che il problema non era mio, ma dell'autore, che era incapace di farsi capire.
Vorrei condividere con voi qualche assaggio della prosa del nostro teologo: "Se questa è la condizione che si apre per la teologia nel suo complesso, allora si può percepire una sorta di dissonanza che ha accompagnato il posizionamento teologico dell'ermeneutica conciliare secondo l'ordine dell'intenzione" (p. 148); "Tra l'intero cristiano dell'evento di Dio e il Vaticano II si instaura quindi una sorta di omologia. Ed è proprio in virtù di essa che può apparire, con una chiave di pertinenza cristologica e di adeguatezza ecclesiologica, il tema della riforma della Chiesa: quando la Chiesa si concentra e si calibra sull'intero fondante della sua attuazione, essa è naturalmente sospinta verso la più fedele adeguazione testimoniale al principio che la costituisce teologicamente e la istituisce storicamente" (p. 151). A Roma si direbbe: "Ma parla come magni!". Questi sarebbero i teologi che dovrebbero spiegare i misteri della fede al popolo di Dio... Ma se rendono misteriosi anche i più semplici ragionamenti umani! Poi magari li faranno anche Vescovi... Boccaccia mia statti zitta!
Per venire al merito dell'articolo, per quel che sono riuscito a capire, posso dire che condivido la tesi di fondo: che cioè la decisione del Papa di rimettere la scomunica ai lefebvriani non è una sconfessione del Concilio, ma si situa sulla scia di esso: essa può essere pienamente compresa nel contesto dell'ecumenismo promosso dal Vaticano II. Su questo sono assolutamente d'accordo. Ci sono però un paio di precisazioni che mi preme aggiungere.
La prima è che ho l'impressione che si tratti di una specie di "appropriazione" a posteriori. Io non so nulla di Marcello Neri; non conosco in alcun modo il suo pensiero, per cui non posso esprimere giudizi in materia. Però l'impressione che traggo dall'articolo è che, non potendo più impedire né contestare la decisione del Papa, la si voglia ora ricondurre nell'ambito della più stretta ortodossia conciliare. Ripeto, a me sta benissimo; non so se stia altrettanto bene all'autore dell'articolo o a tanti altri difensori del Vaticano II.
La seconda precisazione è che non concordo affatto con l'assolutizzazione della tesi dell'articolo, evidente fin dal titolo: "La revoca della scomunica ai lefebvriani è possibile solo nello spirito del Concilio". Sembra che solo ora stia a cuore alla Chiesa l'unità dei cristiani. E l'autore lo dice espressamente: "La Chiesa cattolica, fino al Vaticano II, ha sopportato quasi senza problema lo scisma, visto appunto come qualcosa che non la toccava, ma riguardava esclusivamente gli scismatici" (p. 150). Tale affermazione è molto discutibile. Posso convenire che le modalità per il risanamento degli scismi potessero essere diverse da quelle attuali; ma che la Chiesa si disinteressasse delle proprie divisioni interne è un'affermazione del tutto gratuita. Come si spiegherebbero il Concilio di Firenze, lo stesso Concilio di Trento, il fenomeno dell'uniatismo, ecc.? In quell'avverbio "solo" c'è ancora tutta l'ideologia conciliare, che considera il Vaticano II come una "svolta" nella storia della Chiesa, e la Chiesa postconciliare come una novità assoluta.
In ogni caso, penso che Lycopodium abbia afferrato il nocciolo della questione (non so se nelle intenzioni dell'articolo, ma certamente nelle intenzioni del Papa): i lefebvriani devono rendersi conto che la loro riammissione alla comunione ecclesiale non è una sconfessione del Concilio, ma è in piena sintonia con esso. Essi vengono riammessi non in una fantomatica Chiesa preconciliare, ma nell'unica Chiesa di sempre, alla cui storia appartiene anche il Vaticano II. Essi fanno parte a pieno titolo di questa Chiesa, non di quella che avevano tentato di costruirsi col loro gesto scismatico, ma che si è rivelata una pura astrazione mentale, se è vero che hanno chiesto al Papa la revoca della scomunica (può darsi che qualcuno di loro continui ancora a vivere in quella Chiesa puramente virtuale).
Loro dicono che, se non ci fosse stata la loro tenace testimonianza, molte cose non sarebbero cambiate nella Chiesa di oggi. Non lo so (la storia non si fa con i "se"). So solo che avrebbero potuto combattere la loro battaglia rimanendo fedeli fino in fondo. Come hanno fatto tanti di noi, che, nel furore della mischia, non sono fuggiti, ma sono rimasti sul campo, spesso magari riportando qualche ferita, ma rimanendo sulla breccia sino alla fine. Comunque, sono convinto che la Provvidenza si serve di tutto e di tutti per il bene della Chiesa. C'è spazio per tutti nella Chiesa: a maggior ragione, c'è spazio anche per i tradizionalisti. Non solo c'è spazio; c'è urgente bisogno di loro. Per questo mi sembra molto bello quanto scritto da Marcello Neri: "La cattolicità della Chiesa si realizza solo nei molti cattolicesimi che la localizzano e la particolarizzano" (p. 149). A parte il linguaggio, che può essere discusso, mi sembra un'affermazione molto vera: dovremmo tutti, progressisti e tradizionalisti, accettare questa realtà multiforme, che costituisce la bellezza e la ricchezza della Chiesa.
Ma credo che i lefebvriani, al di là di certe affermazioni estremistiche di circostanza, siano profondamente convinti di tutto ciò. Lo dimostra il fatto che hanno sempre contestato la validità della scomunica comminata a Mons. Lefebvre e ai quattro Vescovi da lui ordinati, fondandosi sul Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 1323: "Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge o il precetto ... agì ... per necessità"). Ciò dimostra che, dopo tutto, il Vaticano II anche per loro non è poi così male...
Molto interessante il paradosso evidenziato da Neri all'inizio dell'articolo: "Rispetto all'annosa questione del conflitto delle interpretazioni del Vaticano II, si attesta ora una condizione della Chiesa in cui i sostenitori dello spirito del Concilio devono necessariamente richiamarsi alla lettera, e i rappresentanti della lettera non possono agire che nello spazio dello spirito che ha innervato il Vaticano II" (p. 147). Siamo giunti a un punto in cui certe contrapposizioni non hanno più senso. Ma è evidente che la polarità fra "lettera" e "spirito" potrà essere superata solo in una interpretazione pienamente cattolica del Concilio.
Infine trovo assai pertinente l'affermazione finale dell'autore dell'articolo: "Nella sua realizzazione il Vaticano II ha mirato a chiudere la stagione della crisi modernista in seno alla Chiesa cattolica. Attraverso un sapiente lavoro di discernimento, il Concilio è stato capace di raccogliere il massimo degli elementi integrabili con l'architettura dogmatica ricevuta dalla tradizione, che fluttuavano sparsi nell'area di quella crisi" (p. 151). Credo che si tratti di un'analisi molto azzeccata: ancor prima che completamento del Vaticano I, il Vaticano II è stato la risposta della Chiesa cattolica al modernismo, quella risposta che essa non era stata capace di dare agli inizi del Novecento. Qualcuno dirà che il Concilio è stato la resa della Chiesa al modernismo (e lo è nella sua interpretazione ideologica). Ma sono convinto che la Chiesa ha fatto nel Vaticano II esattamente ciò che dice Marcello Neri: un discernimento che ha permesso di integrare nella tradizione quanto di integrabile c'era nel modernismo. Anche questo, mi sembra, un atteggiamento profondamente cattolico. Questo penso che sia il punto fondamentale, su cui i tradizionalisti dovranno interrogarsi: la tradizione non è qualcosa di statico, semplicemente da conservare; ma qualcosa di vivente, che si sviluppa; qualcosa in cui siamo tutti inseriti e a cui ciascuno di noi deve dare il suo piccolo contributo.
Non è facile dare una risposta a quest'ultima domanda, dal momento che penso chiunque, anche il più raffinato intellettuale laureato alla Sorbona, giunto al termine dell'articolo, è costretto a chiedersi: Ma che significa? Non so come certi teologi non si rendano conto dell'indecifrabilità del loro periodare. Quando ero studente di teologia prima e di filosofia poi, avevo adottato questo criterio: se leggevo qualcosa e non capivo, mi dicevo: "Forse ero distratto"; e lo leggevo di nuovo. Se anche la seconda volta non riuscivo a capire, pensavo: "Forse è un tantino difficile, c'è bisogno di maggiore attenzione"; e lo leggevo un'altra volta. Se per la terza volta ottenevo lo stesso risultato, chiudevo il libro e concludevo che il problema non era mio, ma dell'autore, che era incapace di farsi capire.
Vorrei condividere con voi qualche assaggio della prosa del nostro teologo: "Se questa è la condizione che si apre per la teologia nel suo complesso, allora si può percepire una sorta di dissonanza che ha accompagnato il posizionamento teologico dell'ermeneutica conciliare secondo l'ordine dell'intenzione" (p. 148); "Tra l'intero cristiano dell'evento di Dio e il Vaticano II si instaura quindi una sorta di omologia. Ed è proprio in virtù di essa che può apparire, con una chiave di pertinenza cristologica e di adeguatezza ecclesiologica, il tema della riforma della Chiesa: quando la Chiesa si concentra e si calibra sull'intero fondante della sua attuazione, essa è naturalmente sospinta verso la più fedele adeguazione testimoniale al principio che la costituisce teologicamente e la istituisce storicamente" (p. 151). A Roma si direbbe: "Ma parla come magni!". Questi sarebbero i teologi che dovrebbero spiegare i misteri della fede al popolo di Dio... Ma se rendono misteriosi anche i più semplici ragionamenti umani! Poi magari li faranno anche Vescovi... Boccaccia mia statti zitta!
Per venire al merito dell'articolo, per quel che sono riuscito a capire, posso dire che condivido la tesi di fondo: che cioè la decisione del Papa di rimettere la scomunica ai lefebvriani non è una sconfessione del Concilio, ma si situa sulla scia di esso: essa può essere pienamente compresa nel contesto dell'ecumenismo promosso dal Vaticano II. Su questo sono assolutamente d'accordo. Ci sono però un paio di precisazioni che mi preme aggiungere.
La prima è che ho l'impressione che si tratti di una specie di "appropriazione" a posteriori. Io non so nulla di Marcello Neri; non conosco in alcun modo il suo pensiero, per cui non posso esprimere giudizi in materia. Però l'impressione che traggo dall'articolo è che, non potendo più impedire né contestare la decisione del Papa, la si voglia ora ricondurre nell'ambito della più stretta ortodossia conciliare. Ripeto, a me sta benissimo; non so se stia altrettanto bene all'autore dell'articolo o a tanti altri difensori del Vaticano II.
La seconda precisazione è che non concordo affatto con l'assolutizzazione della tesi dell'articolo, evidente fin dal titolo: "La revoca della scomunica ai lefebvriani è possibile solo nello spirito del Concilio". Sembra che solo ora stia a cuore alla Chiesa l'unità dei cristiani. E l'autore lo dice espressamente: "La Chiesa cattolica, fino al Vaticano II, ha sopportato quasi senza problema lo scisma, visto appunto come qualcosa che non la toccava, ma riguardava esclusivamente gli scismatici" (p. 150). Tale affermazione è molto discutibile. Posso convenire che le modalità per il risanamento degli scismi potessero essere diverse da quelle attuali; ma che la Chiesa si disinteressasse delle proprie divisioni interne è un'affermazione del tutto gratuita. Come si spiegherebbero il Concilio di Firenze, lo stesso Concilio di Trento, il fenomeno dell'uniatismo, ecc.? In quell'avverbio "solo" c'è ancora tutta l'ideologia conciliare, che considera il Vaticano II come una "svolta" nella storia della Chiesa, e la Chiesa postconciliare come una novità assoluta.
In ogni caso, penso che Lycopodium abbia afferrato il nocciolo della questione (non so se nelle intenzioni dell'articolo, ma certamente nelle intenzioni del Papa): i lefebvriani devono rendersi conto che la loro riammissione alla comunione ecclesiale non è una sconfessione del Concilio, ma è in piena sintonia con esso. Essi vengono riammessi non in una fantomatica Chiesa preconciliare, ma nell'unica Chiesa di sempre, alla cui storia appartiene anche il Vaticano II. Essi fanno parte a pieno titolo di questa Chiesa, non di quella che avevano tentato di costruirsi col loro gesto scismatico, ma che si è rivelata una pura astrazione mentale, se è vero che hanno chiesto al Papa la revoca della scomunica (può darsi che qualcuno di loro continui ancora a vivere in quella Chiesa puramente virtuale).
Loro dicono che, se non ci fosse stata la loro tenace testimonianza, molte cose non sarebbero cambiate nella Chiesa di oggi. Non lo so (la storia non si fa con i "se"). So solo che avrebbero potuto combattere la loro battaglia rimanendo fedeli fino in fondo. Come hanno fatto tanti di noi, che, nel furore della mischia, non sono fuggiti, ma sono rimasti sul campo, spesso magari riportando qualche ferita, ma rimanendo sulla breccia sino alla fine. Comunque, sono convinto che la Provvidenza si serve di tutto e di tutti per il bene della Chiesa. C'è spazio per tutti nella Chiesa: a maggior ragione, c'è spazio anche per i tradizionalisti. Non solo c'è spazio; c'è urgente bisogno di loro. Per questo mi sembra molto bello quanto scritto da Marcello Neri: "La cattolicità della Chiesa si realizza solo nei molti cattolicesimi che la localizzano e la particolarizzano" (p. 149). A parte il linguaggio, che può essere discusso, mi sembra un'affermazione molto vera: dovremmo tutti, progressisti e tradizionalisti, accettare questa realtà multiforme, che costituisce la bellezza e la ricchezza della Chiesa.
Ma credo che i lefebvriani, al di là di certe affermazioni estremistiche di circostanza, siano profondamente convinti di tutto ciò. Lo dimostra il fatto che hanno sempre contestato la validità della scomunica comminata a Mons. Lefebvre e ai quattro Vescovi da lui ordinati, fondandosi sul Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 1323: "Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge o il precetto ... agì ... per necessità"). Ciò dimostra che, dopo tutto, il Vaticano II anche per loro non è poi così male...
Molto interessante il paradosso evidenziato da Neri all'inizio dell'articolo: "Rispetto all'annosa questione del conflitto delle interpretazioni del Vaticano II, si attesta ora una condizione della Chiesa in cui i sostenitori dello spirito del Concilio devono necessariamente richiamarsi alla lettera, e i rappresentanti della lettera non possono agire che nello spazio dello spirito che ha innervato il Vaticano II" (p. 147). Siamo giunti a un punto in cui certe contrapposizioni non hanno più senso. Ma è evidente che la polarità fra "lettera" e "spirito" potrà essere superata solo in una interpretazione pienamente cattolica del Concilio.
Infine trovo assai pertinente l'affermazione finale dell'autore dell'articolo: "Nella sua realizzazione il Vaticano II ha mirato a chiudere la stagione della crisi modernista in seno alla Chiesa cattolica. Attraverso un sapiente lavoro di discernimento, il Concilio è stato capace di raccogliere il massimo degli elementi integrabili con l'architettura dogmatica ricevuta dalla tradizione, che fluttuavano sparsi nell'area di quella crisi" (p. 151). Credo che si tratti di un'analisi molto azzeccata: ancor prima che completamento del Vaticano I, il Vaticano II è stato la risposta della Chiesa cattolica al modernismo, quella risposta che essa non era stata capace di dare agli inizi del Novecento. Qualcuno dirà che il Concilio è stato la resa della Chiesa al modernismo (e lo è nella sua interpretazione ideologica). Ma sono convinto che la Chiesa ha fatto nel Vaticano II esattamente ciò che dice Marcello Neri: un discernimento che ha permesso di integrare nella tradizione quanto di integrabile c'era nel modernismo. Anche questo, mi sembra, un atteggiamento profondamente cattolico. Questo penso che sia il punto fondamentale, su cui i tradizionalisti dovranno interrogarsi: la tradizione non è qualcosa di statico, semplicemente da conservare; ma qualcosa di vivente, che si sviluppa; qualcosa in cui siamo tutti inseriti e a cui ciascuno di noi deve dare il suo piccolo contributo.