Un lettore spagnolo mi ha posto due questioni. Innanzi tutto mi chiede di commentare una frase di Kiko Arguello, fondatore del Cammino Neocatecumenale, che circola su internet:
«Ci permettiamo ricordare che sul Sacrificio della messa si insegna che il concetto di sacrificio è stato introdotto per compiacere i pagani al tempo di Costantino. In realtà la messa è solo una presenza-passaggio del Cristo che, ovviamente, dopo il passaggio, non rimane più dentro il pane, ecc. Tuttavia, questo non ditelo agli altri cristiani, perché non sarebbero ancora in grado di capirlo» (cf. Annuncio di Quaresima 2008).
Certo, se dobbiamo limitarci a commentare questa affermazione, non possiamo fare altro che dire che essa è erronea, non soltanto perché essa va contro questo o quel concilio, ma semplicemente perché essa è storicamente falsa: non è vero che "il concetto di sacrificio è stato introdotto per compiacere i pagani al tempo di Costantino". Un'affermazione del genere andrebbe accuratamente documentata. Io, che ho fatto la mia tesi di licenza in teologia biblica su questo argomento, posso dire, senza tema d'essere smentito, che da un'analisi storico-critica dei testi evangelici appare chiaramente che il valore sacrificale dell'Eucaristia è presente nelle stesse parole di Gesú (le famose ipsissima verba Jesu).
Detto questo, ripeto quel che ho già affermato in altra occasione: non mi piace fare processi sommari a nessuno; non mi piace giudicare le persone (e i movimenti) sulla base di citazioni isolate, della cui autenticità si può pure dubitare. Personalmente, non ho nulla a che spartire con Kiko e con il Cammino Neocatecumenale. Solo, mi limito a costatare alcuni frutti positivi che questa esperienza cristiana ha prodotto e continua a produrre nella Chiesa. Non escludo che ci possano essere degli aspetti negativi (dove non sono?), ma non è mio compito emettere giudizi in materia. Ho già detto che nella Chiesa c'è chi è preposto a tale servizio; so che l'approvazione degli statuti del Cammino ha richiesto molto tempo; mi sembrava che le questioni vertessero piú su alcuni aspetti liturgici che non dottrinali; in ogni caso pare che ormai tali statuti siano stati approvati. Possibile che la Santa Sede, in genere cosí attenta, non si sia accorta di certe eresie?
La seconda questione riguarda il mio riferimento a San Josemaría Escrivá de Balaguer e all'Opus Dei alla fine del mio precedente post. Il mio fedele lettore mi fa notare che le mie affermazioni non sono confortate da una conoscenza diretta o almeno sufficiente della realtà dell'Opus Dei. È vero, non ho mai avuto un'esperienza diretta di tale realtà ecclesiale; quel che dico si basa solo sulla lettura degli scritti di Mons. Escrivá. Il mio interlocutore mi rammenta che, nell'Opus Dei, accanto a tante cose buone, ce ne sono anche di cattive. Non ho mai pensato il contrario: non sono cosí ingenuo da credere che possa esistere una qualche realtà umana dove non esista il peccato originale. Non sono un manicheo: non divido il mondo fra buoni e cattivi; in tutti c'è un po' di bene (anche nei peggiori criminali) e in tutti c'è un po' di male (anche nei santi). Solo, mi sforzo di rilevare e valorizzare gli aspetti positivi presenti nella Chiesa, ben sapendo che tali aspetti convivono con tante limitazioni umane. Anzi, sono convinto che tutto questo faccia parte del mistero dell'incarnazione e della Chiesa (realtà divino-umana). È un mistero che dobbiamo accetare; non solo è illusorio, ma addirittura pericoloso pensare che sia possibile giungere, su questa terra, a una Chiesa di angeli. La Chiesa è fatta di peccatori, che hanno bisogno ogni giorno della misericordia di Dio.
Il mio gentile corrispondente mi fa pure notare che l'intuizione di Escrivá non è poi cosí nuova, ma faceva parte dell'eredità spirituale della Compagnia di Gesú; e mi cita un autore che non conoscevo, il Padre Jean Pierre de Caussade (1675-1751). Allo stesso tempo, mi rivolge un piccolo rimprovero, perché non ho fatto riferimento a un'altra interessantissima esperienza, ancora precedente (XVI secolo), quella dei "Maritati di San Paolo", il "terzo collegio" della Congregazione di San Paolo, fondata da Sant'Antonio Maria Zaccaria (essendo il "primo collegio" i Barnabiti, e il "secondo collegio" le Angeliche di San Paolo). A dire il vero, non mi ero affatto dimenticato di questa esperienza laicale del Cinquecento, ma non vi avevo fatto riferimento non per modestia, bensí perché non mi sembrava del tutto pertinente al punto che volevo sottolineare. L'esperienza dei primi "Paolini" è interessante perché formavano — sacerdoti, religiose e laici — un'unica famiglia; le loro missioni erano realizzate insieme. Il punto che evidenziare l'altro giorno era invece una specie di "primato" dei laici rispetto al clero, cosa che non mi sembra cosí evidente (almeno stando a quanto risulta dai documenti in nostro possesso) nell'esperienza zaccariana. Può darsi che invece questo aspetto fosse presente fra i Gesuiti; ma non ho sufficienti elementi per affermarlo.
In ogni caso, mi piacerebbe vedere nella Chiesa una maggiore stima reciproca. Qualche volta ho l'impressione che avesse proprio ragione il Papa quando, nel febbraio scorso, commentava la lettera ai Galati ai seminaristi di Roma:
«Nella lettera c’è un accenno alla situazione un po’ triste della comunità dei Galati, quando Paolo dice: “Se vi mordete e vi divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni con gli altri… Camminate secondo lo Spirito”. Mi sembra che in questa comunità — che non era piú sulla strada della comunione con Cristo, ma della legge esteriore della “carne” — emergono naturalmente anche delle polemiche e Paolo dice: “Voi divenite come belve, uno morde l’altro”. Accenna cosí alle polemiche che nascono dove la fede degenera in intellettualismo e l’umiltà viene sostituita dall’arroganza di essere migliori dell’altro».
Nella Chiesa d'oggi c'è una grande ricchezza: quante diverse realtà, quanti movimenti, quante esperienze spirituali! È qualcosa di cui dobbiamo rendere grazie al Signore. Ma il problema è che spesso ciascuso pensa che la propria esperienza sia esclusiva, l'unico modo autentico di vivere il cristianesimo. Che presunzione! Nella Chiesa c'è spazio per tutti: il mistero di Cristo è cosí vasto che non possiamo pretendere di esaurirlo con la nopstra piccola esperienza. Ciascuno di noi ha il suo carisma, con cui mette in luce e si sforza di vivere un aspetto di questo mistero inesauribile, lasciando agli altri di evidenziarne altri aspetti. L'umiltà, ci ricorda il Santo Padre, è alla base di ogni autentica esperienza cristiana: chi sono io per atteggiarmi a giudice degli altri? Io ho ricevuto un dono e mi sforzerò di viverlo come meglio posso; rispetterò gli altri, anzi renderò grazie al Signore, perché sono diversi da me. Ciò che importa è che siamo tutti uniti nella stessa fede: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas.
«Ci permettiamo ricordare che sul Sacrificio della messa si insegna che il concetto di sacrificio è stato introdotto per compiacere i pagani al tempo di Costantino. In realtà la messa è solo una presenza-passaggio del Cristo che, ovviamente, dopo il passaggio, non rimane più dentro il pane, ecc. Tuttavia, questo non ditelo agli altri cristiani, perché non sarebbero ancora in grado di capirlo» (cf. Annuncio di Quaresima 2008).
Certo, se dobbiamo limitarci a commentare questa affermazione, non possiamo fare altro che dire che essa è erronea, non soltanto perché essa va contro questo o quel concilio, ma semplicemente perché essa è storicamente falsa: non è vero che "il concetto di sacrificio è stato introdotto per compiacere i pagani al tempo di Costantino". Un'affermazione del genere andrebbe accuratamente documentata. Io, che ho fatto la mia tesi di licenza in teologia biblica su questo argomento, posso dire, senza tema d'essere smentito, che da un'analisi storico-critica dei testi evangelici appare chiaramente che il valore sacrificale dell'Eucaristia è presente nelle stesse parole di Gesú (le famose ipsissima verba Jesu).
Detto questo, ripeto quel che ho già affermato in altra occasione: non mi piace fare processi sommari a nessuno; non mi piace giudicare le persone (e i movimenti) sulla base di citazioni isolate, della cui autenticità si può pure dubitare. Personalmente, non ho nulla a che spartire con Kiko e con il Cammino Neocatecumenale. Solo, mi limito a costatare alcuni frutti positivi che questa esperienza cristiana ha prodotto e continua a produrre nella Chiesa. Non escludo che ci possano essere degli aspetti negativi (dove non sono?), ma non è mio compito emettere giudizi in materia. Ho già detto che nella Chiesa c'è chi è preposto a tale servizio; so che l'approvazione degli statuti del Cammino ha richiesto molto tempo; mi sembrava che le questioni vertessero piú su alcuni aspetti liturgici che non dottrinali; in ogni caso pare che ormai tali statuti siano stati approvati. Possibile che la Santa Sede, in genere cosí attenta, non si sia accorta di certe eresie?
La seconda questione riguarda il mio riferimento a San Josemaría Escrivá de Balaguer e all'Opus Dei alla fine del mio precedente post. Il mio fedele lettore mi fa notare che le mie affermazioni non sono confortate da una conoscenza diretta o almeno sufficiente della realtà dell'Opus Dei. È vero, non ho mai avuto un'esperienza diretta di tale realtà ecclesiale; quel che dico si basa solo sulla lettura degli scritti di Mons. Escrivá. Il mio interlocutore mi rammenta che, nell'Opus Dei, accanto a tante cose buone, ce ne sono anche di cattive. Non ho mai pensato il contrario: non sono cosí ingenuo da credere che possa esistere una qualche realtà umana dove non esista il peccato originale. Non sono un manicheo: non divido il mondo fra buoni e cattivi; in tutti c'è un po' di bene (anche nei peggiori criminali) e in tutti c'è un po' di male (anche nei santi). Solo, mi sforzo di rilevare e valorizzare gli aspetti positivi presenti nella Chiesa, ben sapendo che tali aspetti convivono con tante limitazioni umane. Anzi, sono convinto che tutto questo faccia parte del mistero dell'incarnazione e della Chiesa (realtà divino-umana). È un mistero che dobbiamo accetare; non solo è illusorio, ma addirittura pericoloso pensare che sia possibile giungere, su questa terra, a una Chiesa di angeli. La Chiesa è fatta di peccatori, che hanno bisogno ogni giorno della misericordia di Dio.
Il mio gentile corrispondente mi fa pure notare che l'intuizione di Escrivá non è poi cosí nuova, ma faceva parte dell'eredità spirituale della Compagnia di Gesú; e mi cita un autore che non conoscevo, il Padre Jean Pierre de Caussade (1675-1751). Allo stesso tempo, mi rivolge un piccolo rimprovero, perché non ho fatto riferimento a un'altra interessantissima esperienza, ancora precedente (XVI secolo), quella dei "Maritati di San Paolo", il "terzo collegio" della Congregazione di San Paolo, fondata da Sant'Antonio Maria Zaccaria (essendo il "primo collegio" i Barnabiti, e il "secondo collegio" le Angeliche di San Paolo). A dire il vero, non mi ero affatto dimenticato di questa esperienza laicale del Cinquecento, ma non vi avevo fatto riferimento non per modestia, bensí perché non mi sembrava del tutto pertinente al punto che volevo sottolineare. L'esperienza dei primi "Paolini" è interessante perché formavano — sacerdoti, religiose e laici — un'unica famiglia; le loro missioni erano realizzate insieme. Il punto che evidenziare l'altro giorno era invece una specie di "primato" dei laici rispetto al clero, cosa che non mi sembra cosí evidente (almeno stando a quanto risulta dai documenti in nostro possesso) nell'esperienza zaccariana. Può darsi che invece questo aspetto fosse presente fra i Gesuiti; ma non ho sufficienti elementi per affermarlo.
In ogni caso, mi piacerebbe vedere nella Chiesa una maggiore stima reciproca. Qualche volta ho l'impressione che avesse proprio ragione il Papa quando, nel febbraio scorso, commentava la lettera ai Galati ai seminaristi di Roma:
«Nella lettera c’è un accenno alla situazione un po’ triste della comunità dei Galati, quando Paolo dice: “Se vi mordete e vi divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni con gli altri… Camminate secondo lo Spirito”. Mi sembra che in questa comunità — che non era piú sulla strada della comunione con Cristo, ma della legge esteriore della “carne” — emergono naturalmente anche delle polemiche e Paolo dice: “Voi divenite come belve, uno morde l’altro”. Accenna cosí alle polemiche che nascono dove la fede degenera in intellettualismo e l’umiltà viene sostituita dall’arroganza di essere migliori dell’altro».
Nella Chiesa d'oggi c'è una grande ricchezza: quante diverse realtà, quanti movimenti, quante esperienze spirituali! È qualcosa di cui dobbiamo rendere grazie al Signore. Ma il problema è che spesso ciascuso pensa che la propria esperienza sia esclusiva, l'unico modo autentico di vivere il cristianesimo. Che presunzione! Nella Chiesa c'è spazio per tutti: il mistero di Cristo è cosí vasto che non possiamo pretendere di esaurirlo con la nopstra piccola esperienza. Ciascuno di noi ha il suo carisma, con cui mette in luce e si sforza di vivere un aspetto di questo mistero inesauribile, lasciando agli altri di evidenziarne altri aspetti. L'umiltà, ci ricorda il Santo Padre, è alla base di ogni autentica esperienza cristiana: chi sono io per atteggiarmi a giudice degli altri? Io ho ricevuto un dono e mi sforzerò di viverlo come meglio posso; rispetterò gli altri, anzi renderò grazie al Signore, perché sono diversi da me. Ciò che importa è che siamo tutti uniti nella stessa fede: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas.