Negli Stati Uniti è in corso una visita apostolica alle comunità di suore, segno questo della profonda preoccupazione della Santa Sede nei confronti la vita religiosa femminile in quel paese. Le reazioni contro della visita sono state spesso violente. Non è questo il caso di un articolo apparso sull’ultimo numero di America, la rivista dei Gesuiti americani, dal titolo “Confessioni di una suora moderna”, a firma di Sr. Ilia Delio, delle Suore Francescane di Washington. Potete trovare una traduzione italiana nel blog Messainlatino.it (consiglio chi conosce l’inglese di leggere direttamente l’originale, sia perché la traduzione è incompleta — manca della parte autobiografica, che svolge un ruolo non secondario nell’economia dell’articolo — sia perché dall’originale è piú facile cogliere il reale stato d’animo dell’autrice).
Nonostante una certa farraginosità, l’articolo è apprezzabile, perché l’autrice si mostra fondamentalmente onesta, non si lascia andare a sterili polemiche e si sforza di presentare obiettivamente la situazione della vita religiosa in America oggi. Attualmente si fronteggiano negli Stati Uniti due modi diversi di interpretare e vivere la vita religiosa: da una parte ci sono gli istituti che, dopo il Concilio, hanno attuato una radicale trasformazione, abbandonando buona parte delle tradizionali pratiche della vita religiosa (inclusa spesso la stessa vita comune), insistendo maggiormente su una immersione nel mondo; dall’altra, ci sono non poche nuove comunità che, pur non potendo essere ricondotte alla galassia tradizionalista, hanno riscoperto il valore di alcune forme tradizionali. I due schieramenti fanno riferimento a due distinte associazioni. Segno esteriore dell’appartenenza al primo o al secondo schieramento è l’uso (o il non-uso) dell’abito religioso.
Prendendo a prestito gli strumenti forniti da Padre Radcliffe, Sr. Delio individua il discrimine che divide le suore americane in «due differenti teologie basate su differenti interpretazioni del Vaticano II» (emblematicamente, l’ex-Maestro generale dei Domenicani riconduceva tali opposte teologie alle due riviste teologiche apparse in Europa nel postconcilio: Concilium e Communio). La prima interpretazione del Concilio è quella di chi sottolinea in esso l’aspetto di rottura con il passato; la seconda, quella di chi invece evidenzia soprattutto l’aspetto di continuità.
L’autrice dell’articolo, con molta onestà, riconosce che, se si deve dare retta ai numeri, il futuro appartiene alle comunità rimaste fedeli alla tradizione, dal momento che esse possono contare su nuove vocazioni, mentre quelle che hanno rotto col passato stanno subendo un forte invecchiamento e sono destinate, prima o poi, a scomparire. Ma quel che meraviglia è che, nonostante il riconoscimento di tale situazione, Sr. Delio non mette in alcun modo in discussione le proprie scelte; anzi, le conferma, vedendo in esse una maggiore fedeltà al Vangelo. Non che con ciò voglia accusare lo schieramento opposto di infedeltà al Vangelo; anzi, si sforza di presentare le due opzioni come due modi diversi, entrambi legittimi di vivere la vita religiosa:
«Entrambi i gruppi contemporanei di religiose ... testimoniano il Vangelo rivelato in Gesú Cristo, ma le loro traiettorie differiscono. Le prime [le “tradizionaliste”] cercano innanzi tutto di essere spose di Cristo; la loro preoccupazione è una unione nuziale celeste. Il secondo gruppo [quello delle suore “postconciliari”] innanzi tutto segue Cristo liberatore, testimoniando Cristo in mezzo ai conflitti della storia. In ambedue i gruppi si possono trovare idoli, segreti e disfunzioni, cosí come santi, profeti e mistici. Entrambi i gruppi sono peccatori e redenti. Entrambi seguono il diritto canonico; entrambi hanno l’assicurazione contro le malattie, l’assicurazione per l’auto, i fondi pensione e un posto per la sepoltura».
Tale equiparazione mi piace, perché la trovo molto cattolica: invita a non assolutizzare nulla e a guardare con estremo realismo a qualsiasi esperienza presente nella Chiesa. Eppure c’è qualcosa che non torna nel discorso di Sr. Ilia. Io sono il primo a riconoscere che nella Chiesa c’è posto per tutti, per le esperienze piú diverse. Non esiste un solo modo di vivere il Vangelo; lo Spirito soffia dove vuole e distribuisce a piene mani i suoi doni, e dobbiamo essere sempre pronti a riconoscere e valorizzare tali doni. Mi sta tutto bene. Ma nel caso presente, non mi sembra che si possa applicare un simile discorso. Perché in questo caso si tratta, come giustamente rileva l’autrice, dell’atteggiamento da tenere nei confronti del Concilio Vaticano II. E in questo ambito non mi sembra che ci sia possibilità di pluralismo. L’atteggiamento non può che essere uno solo: quello della “ermeneutica della continuità”, come ci ricorda Benedetto XVI. L’altro atteggiamento, quello della “ermeneutica della rottura”, è semplicemente da rigettare: non si tratta di una possibile opzione alternativa.
L’articolo in questione è un esempio lampante di quanto un atteggiamento di difesa a oltranza Concilio si traduca spesso in un completo tradimento di esso. Sr. Delio fa continuo riferimento al Vaticano II, senza mai citarlo: per lei (come per tanti altri) il Concilio si identifica piú con il cosiddetto “spirito del Concilio” che non con i suoi documenti. Basti questo passaggio rivelatore:
«La Leadershp Conference of Women Religious [l’associazione delle suore progressiste] ha continuato nello spirito del Vaticano II ad essere aperta al mondo, esplorando nuove strade, fra cui la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri».
Per cui, secondo la nostra cara suorina, il Concilio si identificherebbe con la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri. Ma ha mai letto Sr. Ilia il decreto Perfectae caritatis sulla vita religiosa? È proprio sicura che ci siano scritte queste cose?
Il colmo è poi quando incomincia a parlare di Teilhard de Chardin. Che tale teologo abbia avuto un certo influsso sul Vaticano II, non c’è dubbio; ma che egli possa essere considerato come la chiave di lettura del Concilio, avrei qualche dubbio.
Personalmente ho un grande rispetto per Sr. Delio e per tanti che, come lei, hanno fatto certe scelte. Tali scelte non sono state fatte, il piú delle volte, per motivi ideologici, ma sono il risultato di sofferte esperienze personali. Per questo dicevo che la parte autobiografica dell’articolo ha la sua importanza. Non ho alcuna difficoltà a comprendere le difficoltà incontrate da Sr. Ilia nella sua prima esperienza di vita religiosa:
«La mia visione idealizzata di vita religiosa cominciò a crollare nella clausura. Per giorni e giorni riconobbi quanto ero lontana da ogni nobile aspirazione di santità. Vivevo con donne che soffrivano di depressione maniacale, venivano da famiglie alcolizzate o erano diventate vedove da giovani. C’era poca condivisione personale e poco contatto con il mondo».
Che questa possa essere la situazione di molti monasteri non faccio fatica ad ammetterlo. Anche nella vita religiosa non claustrale sperimentiamo quotidianamente i limiti della nostra umanità. Il problema è quello di essersi illusi che tali problemi dipendessero esclusivamente dalle strutture della vita religiosa e che si potessero risolvere intervenendo, appunto, sulle strutture. Fino ad arrivare al punto di abbandonare la stessa vita comune. Mi sembra una soluzione piuttosto comoda: siccome incontro difficoltà a vivere con gli altri, mi metto per conto mio. Alla faccia di tanti bei discorsi! Che ci fosse bisogno di un adattamento delle strutture, fu il Concilio stesso a riconoscerlo, ma senza stravolgere la natura della vita religiosa. Anzi, il Concilio invitava i religiosi a tornare «alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti» (Perfectae caritatis, n. 2). Il vero rinnovamento, secondo il Concilio, doveva essere, prima che rinnovamento delle strutture, un «rinnovamento spirituale» (ibid.).
Se leggete con attenzione l’articolo, vi accorgerete che torna continuamente il discorso sull’uso dell’abito (io ho contato ben 12 ricorrenze). Si direbbe che il pensiero dell’abito, in queste suore che lo hanno abbandonato, sia diventato una specie di ossessione. La giustificazione che per lo piú viene portata per l’abbandono dell’abito, è che esso sarebbe un ostacolo che impedisce di rapportarsi con gli altri. Chi fa uso di un abbigliamento religioso sa benissimo che non è vero: se incontriamo difficoltà a rapportarci agli altri, ciò dipende assai piú probabilmente dal nostro carattere che non dal modo come siamo vestiti. Se c’è un motivo recondito che ci spinge ad abbandonare l’abito religioso, questo è solo quello di passare inosservati, di mimetizzarci nella massa, di non aver noie. Ma, a parte tali considerazioni, mi piacerebbe sapere dove le suore progressiste trovino nel Concilio, a cui continuamente si appellano, l’indicazione ad abbandonare l’abito religioso? Il decreto Perfectae caritatis afferma:
«L’abito religioso, segno della consacrazione, sia semplice e modesto, povero e nello stesso tempo decoroso, come pure rispondente alle esigenze della salute e adatto sia ai tempi e ai luoghi, sia alle necessità dell’apostolato. Gli abiti dei religiosi e delle religiose che non concordano con queste norme, siano modificati» (n. 17).
Il Concilio dice di modificare gli abiti non corrispondenti ai criteri indicati, non di sopprimere l’abito religioso. Ecco un bell’esempio di fedeltà al Concilio! Alla vita religiosa è successo qualcosa di simile a ciò che è accaduto alla liturgia: in nome del Concilio, ci si è infischiati di quanto il Concilio aveva detto.
Il caso dell’abito religioso mi pare emblematico. Si è fatto di tutto per convincerci che si trattava di una questione secondaria (e in effetti lo è: non basta portare un abito per essere un buon religioso!); salvo poi assolutizzarla in senso contrario, al punto che in molti casi è diventato un tabú fare uso dell’abito. Oggi ci accorgiamo che quelle comunità che ne fanno ancora uso hanno le vocazioni; quelle che lo hanno abbandonato, no. Mi sembra assai significativo; l’abito continua a svolgere il ruolo che il Concilio gli aveva attribuito: quello di essere “segno”. Ha ragione Sr. Delio: l’abito continua a essere segno sia quando lo si usa, sia quando non lo si usa; il segno di due modi diversi di intendere la vita religiosa; uno in comunione con la Chiesa e in continuità con la tradizione; l’altro secondo i nostri schemi mentali e un’interpretazione ideologica del Concilio.
Da ultimo, mi pare che non vada tralasciato un elemento semplicissimo ma importantissimo: l’obbedienza alla Chiesa. Se essa, attraverso un Concilio ecumenico, ci dice di fare in un certo modo, perché noi cerchiamo tutte le scuse per fare di testa nostra? Ci meravigliamo poi che la realtà si mostra diversa dalle nostre aspettative? Se invece di ideologizzare il Concilio e lanciarci nell’elaborazione di astratte teorie, ci fossimo limitati ad attuare, con umiltà e semplicità, ciò che il Concilio aveva stabilito, non sarebbe stato molto meglio per tutti?
Nonostante una certa farraginosità, l’articolo è apprezzabile, perché l’autrice si mostra fondamentalmente onesta, non si lascia andare a sterili polemiche e si sforza di presentare obiettivamente la situazione della vita religiosa in America oggi. Attualmente si fronteggiano negli Stati Uniti due modi diversi di interpretare e vivere la vita religiosa: da una parte ci sono gli istituti che, dopo il Concilio, hanno attuato una radicale trasformazione, abbandonando buona parte delle tradizionali pratiche della vita religiosa (inclusa spesso la stessa vita comune), insistendo maggiormente su una immersione nel mondo; dall’altra, ci sono non poche nuove comunità che, pur non potendo essere ricondotte alla galassia tradizionalista, hanno riscoperto il valore di alcune forme tradizionali. I due schieramenti fanno riferimento a due distinte associazioni. Segno esteriore dell’appartenenza al primo o al secondo schieramento è l’uso (o il non-uso) dell’abito religioso.
Prendendo a prestito gli strumenti forniti da Padre Radcliffe, Sr. Delio individua il discrimine che divide le suore americane in «due differenti teologie basate su differenti interpretazioni del Vaticano II» (emblematicamente, l’ex-Maestro generale dei Domenicani riconduceva tali opposte teologie alle due riviste teologiche apparse in Europa nel postconcilio: Concilium e Communio). La prima interpretazione del Concilio è quella di chi sottolinea in esso l’aspetto di rottura con il passato; la seconda, quella di chi invece evidenzia soprattutto l’aspetto di continuità.
L’autrice dell’articolo, con molta onestà, riconosce che, se si deve dare retta ai numeri, il futuro appartiene alle comunità rimaste fedeli alla tradizione, dal momento che esse possono contare su nuove vocazioni, mentre quelle che hanno rotto col passato stanno subendo un forte invecchiamento e sono destinate, prima o poi, a scomparire. Ma quel che meraviglia è che, nonostante il riconoscimento di tale situazione, Sr. Delio non mette in alcun modo in discussione le proprie scelte; anzi, le conferma, vedendo in esse una maggiore fedeltà al Vangelo. Non che con ciò voglia accusare lo schieramento opposto di infedeltà al Vangelo; anzi, si sforza di presentare le due opzioni come due modi diversi, entrambi legittimi di vivere la vita religiosa:
«Entrambi i gruppi contemporanei di religiose ... testimoniano il Vangelo rivelato in Gesú Cristo, ma le loro traiettorie differiscono. Le prime [le “tradizionaliste”] cercano innanzi tutto di essere spose di Cristo; la loro preoccupazione è una unione nuziale celeste. Il secondo gruppo [quello delle suore “postconciliari”] innanzi tutto segue Cristo liberatore, testimoniando Cristo in mezzo ai conflitti della storia. In ambedue i gruppi si possono trovare idoli, segreti e disfunzioni, cosí come santi, profeti e mistici. Entrambi i gruppi sono peccatori e redenti. Entrambi seguono il diritto canonico; entrambi hanno l’assicurazione contro le malattie, l’assicurazione per l’auto, i fondi pensione e un posto per la sepoltura».
Tale equiparazione mi piace, perché la trovo molto cattolica: invita a non assolutizzare nulla e a guardare con estremo realismo a qualsiasi esperienza presente nella Chiesa. Eppure c’è qualcosa che non torna nel discorso di Sr. Ilia. Io sono il primo a riconoscere che nella Chiesa c’è posto per tutti, per le esperienze piú diverse. Non esiste un solo modo di vivere il Vangelo; lo Spirito soffia dove vuole e distribuisce a piene mani i suoi doni, e dobbiamo essere sempre pronti a riconoscere e valorizzare tali doni. Mi sta tutto bene. Ma nel caso presente, non mi sembra che si possa applicare un simile discorso. Perché in questo caso si tratta, come giustamente rileva l’autrice, dell’atteggiamento da tenere nei confronti del Concilio Vaticano II. E in questo ambito non mi sembra che ci sia possibilità di pluralismo. L’atteggiamento non può che essere uno solo: quello della “ermeneutica della continuità”, come ci ricorda Benedetto XVI. L’altro atteggiamento, quello della “ermeneutica della rottura”, è semplicemente da rigettare: non si tratta di una possibile opzione alternativa.
L’articolo in questione è un esempio lampante di quanto un atteggiamento di difesa a oltranza Concilio si traduca spesso in un completo tradimento di esso. Sr. Delio fa continuo riferimento al Vaticano II, senza mai citarlo: per lei (come per tanti altri) il Concilio si identifica piú con il cosiddetto “spirito del Concilio” che non con i suoi documenti. Basti questo passaggio rivelatore:
«La Leadershp Conference of Women Religious [l’associazione delle suore progressiste] ha continuato nello spirito del Vaticano II ad essere aperta al mondo, esplorando nuove strade, fra cui la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri».
Per cui, secondo la nostra cara suorina, il Concilio si identificherebbe con la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri. Ma ha mai letto Sr. Ilia il decreto Perfectae caritatis sulla vita religiosa? È proprio sicura che ci siano scritte queste cose?
Il colmo è poi quando incomincia a parlare di Teilhard de Chardin. Che tale teologo abbia avuto un certo influsso sul Vaticano II, non c’è dubbio; ma che egli possa essere considerato come la chiave di lettura del Concilio, avrei qualche dubbio.
Personalmente ho un grande rispetto per Sr. Delio e per tanti che, come lei, hanno fatto certe scelte. Tali scelte non sono state fatte, il piú delle volte, per motivi ideologici, ma sono il risultato di sofferte esperienze personali. Per questo dicevo che la parte autobiografica dell’articolo ha la sua importanza. Non ho alcuna difficoltà a comprendere le difficoltà incontrate da Sr. Ilia nella sua prima esperienza di vita religiosa:
«La mia visione idealizzata di vita religiosa cominciò a crollare nella clausura. Per giorni e giorni riconobbi quanto ero lontana da ogni nobile aspirazione di santità. Vivevo con donne che soffrivano di depressione maniacale, venivano da famiglie alcolizzate o erano diventate vedove da giovani. C’era poca condivisione personale e poco contatto con il mondo».
Che questa possa essere la situazione di molti monasteri non faccio fatica ad ammetterlo. Anche nella vita religiosa non claustrale sperimentiamo quotidianamente i limiti della nostra umanità. Il problema è quello di essersi illusi che tali problemi dipendessero esclusivamente dalle strutture della vita religiosa e che si potessero risolvere intervenendo, appunto, sulle strutture. Fino ad arrivare al punto di abbandonare la stessa vita comune. Mi sembra una soluzione piuttosto comoda: siccome incontro difficoltà a vivere con gli altri, mi metto per conto mio. Alla faccia di tanti bei discorsi! Che ci fosse bisogno di un adattamento delle strutture, fu il Concilio stesso a riconoscerlo, ma senza stravolgere la natura della vita religiosa. Anzi, il Concilio invitava i religiosi a tornare «alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti» (Perfectae caritatis, n. 2). Il vero rinnovamento, secondo il Concilio, doveva essere, prima che rinnovamento delle strutture, un «rinnovamento spirituale» (ibid.).
Se leggete con attenzione l’articolo, vi accorgerete che torna continuamente il discorso sull’uso dell’abito (io ho contato ben 12 ricorrenze). Si direbbe che il pensiero dell’abito, in queste suore che lo hanno abbandonato, sia diventato una specie di ossessione. La giustificazione che per lo piú viene portata per l’abbandono dell’abito, è che esso sarebbe un ostacolo che impedisce di rapportarsi con gli altri. Chi fa uso di un abbigliamento religioso sa benissimo che non è vero: se incontriamo difficoltà a rapportarci agli altri, ciò dipende assai piú probabilmente dal nostro carattere che non dal modo come siamo vestiti. Se c’è un motivo recondito che ci spinge ad abbandonare l’abito religioso, questo è solo quello di passare inosservati, di mimetizzarci nella massa, di non aver noie. Ma, a parte tali considerazioni, mi piacerebbe sapere dove le suore progressiste trovino nel Concilio, a cui continuamente si appellano, l’indicazione ad abbandonare l’abito religioso? Il decreto Perfectae caritatis afferma:
«L’abito religioso, segno della consacrazione, sia semplice e modesto, povero e nello stesso tempo decoroso, come pure rispondente alle esigenze della salute e adatto sia ai tempi e ai luoghi, sia alle necessità dell’apostolato. Gli abiti dei religiosi e delle religiose che non concordano con queste norme, siano modificati» (n. 17).
Il Concilio dice di modificare gli abiti non corrispondenti ai criteri indicati, non di sopprimere l’abito religioso. Ecco un bell’esempio di fedeltà al Concilio! Alla vita religiosa è successo qualcosa di simile a ciò che è accaduto alla liturgia: in nome del Concilio, ci si è infischiati di quanto il Concilio aveva detto.
Il caso dell’abito religioso mi pare emblematico. Si è fatto di tutto per convincerci che si trattava di una questione secondaria (e in effetti lo è: non basta portare un abito per essere un buon religioso!); salvo poi assolutizzarla in senso contrario, al punto che in molti casi è diventato un tabú fare uso dell’abito. Oggi ci accorgiamo che quelle comunità che ne fanno ancora uso hanno le vocazioni; quelle che lo hanno abbandonato, no. Mi sembra assai significativo; l’abito continua a svolgere il ruolo che il Concilio gli aveva attribuito: quello di essere “segno”. Ha ragione Sr. Delio: l’abito continua a essere segno sia quando lo si usa, sia quando non lo si usa; il segno di due modi diversi di intendere la vita religiosa; uno in comunione con la Chiesa e in continuità con la tradizione; l’altro secondo i nostri schemi mentali e un’interpretazione ideologica del Concilio.
Da ultimo, mi pare che non vada tralasciato un elemento semplicissimo ma importantissimo: l’obbedienza alla Chiesa. Se essa, attraverso un Concilio ecumenico, ci dice di fare in un certo modo, perché noi cerchiamo tutte le scuse per fare di testa nostra? Ci meravigliamo poi che la realtà si mostra diversa dalle nostre aspettative? Se invece di ideologizzare il Concilio e lanciarci nell’elaborazione di astratte teorie, ci fossimo limitati ad attuare, con umiltà e semplicità, ciò che il Concilio aveva stabilito, non sarebbe stato molto meglio per tutti?