Ieri Sandro Magister ha pubblicato sul suo blog Settimo cielo un articolo del Prof. Pietro De Marco dal titolo “Cattolicesimo politico al tramonto: a vantaggio di chi? L’enigma segreteria di Stato”. Si tratta praticamente di una risposta all’articolo di Gianfranco Brunelli sull’ultimo numero de Il Regno.
Non voglio entrare nel merito della disputa, innanzi tutto perché, come lo stesso De Marco riconosce, non c’è «niente di certo, ovviamente; solo scenari ipotetici»; in secondo luogo, perché — devo confessare — questa storia del caso Boffo incomincia a venirmi un po’ a noia.
Vorrei invece prendere spunto dalle riflessioni del Prof. De Marco a proposito delle relazioni fra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale italiana, per soffermarmi su una questione piú generale: quella del rapporto fra Papa e Vescovi, Santa Sede e Conferenze episcopali.
Il Prof. De Marco vede, in ciò che sta accadendo in questi giorni, una sorta di “disciplinamento” delle Conferenze episcopali da parte della Segreteria di Stato. E aggiunge:
«Estraneo come sono ad ogni “complesso antiromano”, desidero una segreteria di Stato forte. Ma è evidente il rischio che, per realizzare questo disegno di disciplinamento, si distrugga nella Chiesa italiana il meglio, cioè proprio la linea piú in sintonia con questo papa e col predecessore, si abbandoni l’episcopato ai suoi conflitti, e infine si perda il polso della stessa situazione politica, che non è riducibile al rapporto con i governi».
E, per confermare il suo pensiero, ricorda che la CEI ha sempre costituito una sorta di modello per le altre Conferenze episcopali: «un modello planetario di attaccamento alla sede apostolica».
Non posso che concordare col Prof. De Marco. Vale anche per me l’estraneità a qualsiasi “complesso antiromano”. Non solo, ma ho sempre pienamente condiviso le obiezioni sollevate dal Card. Ratzinger sullo “statuto teologico” delle Conferenze episcopali. Sono perfettamente consapevole che tali organismi rischiano di trasformarsi in mostri di burocrazia, che nulla hanno a che fare con la costituzione divina della Chiesa. Ma ciò non significa che le Conferenze episcopali siano inutili e da gettare, quindi, nella spazzatura: esse svolgono, nella situazione attuale della Chiesa, un insostituibile ruolo di coordinamento fra i Vescovi di un determinato territorio. Quel “disciplinamento” che la Segreteria di Stato vorrebbe esercitare sulle Conferenze episcopali, queste ultime lo esercitano sui singoli Vescovi, impedendo che ciascuno se ne vada per la sua strada, provocando disorientamento dentro e fuori la Chiesa. Esse decidono, in maniera collegiale, quale debbano essere gli orientamenti pastorali da seguirsi hic et nunc, e inoltre adottano un atteggiamento comune di fronte alle autorità politiche. È ovvio che su tutte queste materie sia possibile una diversità di vedute da parte dei singoli Vescovi (non si tratta di questioni di fede); per cui, onde evitare l’impressione di anarchia, è opportuno che siano concordate alcune linee-guida, a cui poi tutti i Vescovi faranno riferimento. E questo lavoro solo i Vescovi possono farlo, perché loro conoscono direttamente le situazioni locali.
È bene che non venga mai interrotto il contatto con Roma (diretto o attraverso il Nunzio); ma questa non può sostituirsi ai singoli episcopati, perché, cosí facendo, rischia di prendere delle forti cantonate. Il Prof. De Marco fa l’esempio della bambina brasiliana costretta ad abortire: in quel caso L’Osservatore Romano (con la Segreteria di Stato alle spalle) sconfessò il Vescovo di Recife, suscitando un putiferio non solo in Brasile, ma nella stessa Curia Romana (Pontificia Accademia della Vita). Oggi Magister riprende, sul sito www.chiesa, un altro caso di tensione: quello tra la Santa Sede e l’episcopato statunitense a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti della presidenza Obama. È troppo rischioso per la Sede Apostolica volersi sovrapporre alle competenze dei Vescovi o delle Conferenze episcopali.
D’altra parte, ci sono molti oggi che chiedono un maggiore disciplinamento della Chiesa: c’è una grande confusione; sembra che ognuno vada per la sua strada; i Vescovi sembrano spesso, se non ribellarsi, perlomeno non sottomettersi al Papa. C’è da ricucire, per cosí dire, il “tessuto” ecclesiale. Come? La soluzione sembra ovvia: una maggiore centralizzazione della Chiesa. Per garantire una effettiva sottomissione dei Vescovi al Papa, sembra necessario che la Segreteria di Stato tenga sotto controllo le Conferenze episcopali, ridimensionando i loro poteri, e la Santa Sede curi maggiormente le nomine episcopali, scegliendo esclusivamente candidati di sicura fedeltà.
Sembra facile; ma non lo è. Se si riflette bene, ci si accorgerà che gli attuali Vescovi non sono stati scelti da Giovanni XXIII o da Paolo VI, ma da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Durante gli ultimi pontificati i Vescovi sono stati nominati con grande cura; eppure... Quando sono stati scelti, Tettamanzi o Schönborn — tanto per fare due nomi — passavano per conservatori; come mai oggi vengono annoverati fra i maggiori contestatori dell’autorità pontificia? C'è qualcosa che non va.
Non possiamo applicare alla Chiesa gli schemi propri di una impresa o di uno stato: la Chiesa è qualcosa di diverso. Ci sono alcuni cattolici che pensano alla Chiesa come a una monarchia assoluta, nella quale esiste un unico sovrano (il Papa), e i Vescovi sono i suoi funzionari (una specie di prefetti). Ma questa non è la Chiesa. Le diocesi non sono le “province” della Chiesa; esse stesse sono “Chiese” a tutti gli effetti (le Chiese particolari); e i Vescovi sono i loro legittimi pastori, successori degli Apostoli. Che nella Chiesa ci sia poi una Chiesa particolare con il suo Vescovo, che hanno un primato rispetto alle altre Chiese e agli altri Vescovi, è un dato di fatto, che però non sopprime la piena “ecclesialità” delle singole diocesi. Piú che parlare di “sottomissione”, sarebbe opportuno parlare di piena “comunione” fra le singole Chiese particolari e di queste con la Chiesa di Roma. È ovvio che tale comunione è una comunione gerarchica, che prevede l’accettazione del primato non solo onorifico, ma giurisdizionale del Romano Pontefice.
Anche questo potrebbe apparire un bel discorso astratto, ma difficile da attuarsi nella pratica. Certamente; ma penso che, una volta chiariti i principi, non sia poi impossibile trovare gli strumenti per armonizzare le diverse esigenze. Tra tali strumenti mi pare che la Chiesa ne possieda uno, preziosissimo, che essa ha sempre proposto alla società civile, ma che sembra faccia fatica ad applicare a sé stessa. Si chiama “principio di sussidiarietà”. Tale principio viene cosí descritto da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno:
«Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, cosí è ingiusto rimettere a una maggiore e piú alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe piú che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con piú libertà, con piú forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto piú perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto piú forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche piú felice e piú prospera la condizione dello Stato stesso» (nn. 80-81).
Parole sante, che non valgono solo per lo Stato, ma anche per la Chiesa. Se vogliamo che nella Chiesa ci sia ordine (“l’ordine gerarchico”), se vogliamo che l’autorità sia rispettata e possa svolgere le sue funzioni, non dobbiamo centralizzare, ma delegare. La Santa Sede non può esautorare i singoli Vescovi; la Segreteria di Stato non può sostituirsi alle Conferenze episcopali; ciascuno deve fare la sua parte, in piena armonia col resto del corpo. È ovvio che ci saranno sempre delle tensioni; è inevitabile che ci sia diversità di valutazione. Per questo è importante che ci sia un continuo dialogo, una condivisione dei problemi, una disponibilità al reciproco confronto; ma mai l’esautoramento, la delegittimazione, l’accentramento. Tali atteggiamenti dànno solo l’impressione di una immediata efficacia; ma, in realtà, distruggono la comunione e rendono piú difficile l’esercizio dell’autorità. L’autorità superiore, come ci ricorda Pio XI, deve sostenere quella inferiore, non distruggerla. Il ruolo della Curia Romana è quello di aiutare, incoraggiare, talvolta correggere i Vescovi e le Conferenze episcopali; non quello di sostituirsi a loro.
Non voglio entrare nel merito della disputa, innanzi tutto perché, come lo stesso De Marco riconosce, non c’è «niente di certo, ovviamente; solo scenari ipotetici»; in secondo luogo, perché — devo confessare — questa storia del caso Boffo incomincia a venirmi un po’ a noia.
Vorrei invece prendere spunto dalle riflessioni del Prof. De Marco a proposito delle relazioni fra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale italiana, per soffermarmi su una questione piú generale: quella del rapporto fra Papa e Vescovi, Santa Sede e Conferenze episcopali.
Il Prof. De Marco vede, in ciò che sta accadendo in questi giorni, una sorta di “disciplinamento” delle Conferenze episcopali da parte della Segreteria di Stato. E aggiunge:
«Estraneo come sono ad ogni “complesso antiromano”, desidero una segreteria di Stato forte. Ma è evidente il rischio che, per realizzare questo disegno di disciplinamento, si distrugga nella Chiesa italiana il meglio, cioè proprio la linea piú in sintonia con questo papa e col predecessore, si abbandoni l’episcopato ai suoi conflitti, e infine si perda il polso della stessa situazione politica, che non è riducibile al rapporto con i governi».
E, per confermare il suo pensiero, ricorda che la CEI ha sempre costituito una sorta di modello per le altre Conferenze episcopali: «un modello planetario di attaccamento alla sede apostolica».
Non posso che concordare col Prof. De Marco. Vale anche per me l’estraneità a qualsiasi “complesso antiromano”. Non solo, ma ho sempre pienamente condiviso le obiezioni sollevate dal Card. Ratzinger sullo “statuto teologico” delle Conferenze episcopali. Sono perfettamente consapevole che tali organismi rischiano di trasformarsi in mostri di burocrazia, che nulla hanno a che fare con la costituzione divina della Chiesa. Ma ciò non significa che le Conferenze episcopali siano inutili e da gettare, quindi, nella spazzatura: esse svolgono, nella situazione attuale della Chiesa, un insostituibile ruolo di coordinamento fra i Vescovi di un determinato territorio. Quel “disciplinamento” che la Segreteria di Stato vorrebbe esercitare sulle Conferenze episcopali, queste ultime lo esercitano sui singoli Vescovi, impedendo che ciascuno se ne vada per la sua strada, provocando disorientamento dentro e fuori la Chiesa. Esse decidono, in maniera collegiale, quale debbano essere gli orientamenti pastorali da seguirsi hic et nunc, e inoltre adottano un atteggiamento comune di fronte alle autorità politiche. È ovvio che su tutte queste materie sia possibile una diversità di vedute da parte dei singoli Vescovi (non si tratta di questioni di fede); per cui, onde evitare l’impressione di anarchia, è opportuno che siano concordate alcune linee-guida, a cui poi tutti i Vescovi faranno riferimento. E questo lavoro solo i Vescovi possono farlo, perché loro conoscono direttamente le situazioni locali.
È bene che non venga mai interrotto il contatto con Roma (diretto o attraverso il Nunzio); ma questa non può sostituirsi ai singoli episcopati, perché, cosí facendo, rischia di prendere delle forti cantonate. Il Prof. De Marco fa l’esempio della bambina brasiliana costretta ad abortire: in quel caso L’Osservatore Romano (con la Segreteria di Stato alle spalle) sconfessò il Vescovo di Recife, suscitando un putiferio non solo in Brasile, ma nella stessa Curia Romana (Pontificia Accademia della Vita). Oggi Magister riprende, sul sito www.chiesa, un altro caso di tensione: quello tra la Santa Sede e l’episcopato statunitense a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti della presidenza Obama. È troppo rischioso per la Sede Apostolica volersi sovrapporre alle competenze dei Vescovi o delle Conferenze episcopali.
D’altra parte, ci sono molti oggi che chiedono un maggiore disciplinamento della Chiesa: c’è una grande confusione; sembra che ognuno vada per la sua strada; i Vescovi sembrano spesso, se non ribellarsi, perlomeno non sottomettersi al Papa. C’è da ricucire, per cosí dire, il “tessuto” ecclesiale. Come? La soluzione sembra ovvia: una maggiore centralizzazione della Chiesa. Per garantire una effettiva sottomissione dei Vescovi al Papa, sembra necessario che la Segreteria di Stato tenga sotto controllo le Conferenze episcopali, ridimensionando i loro poteri, e la Santa Sede curi maggiormente le nomine episcopali, scegliendo esclusivamente candidati di sicura fedeltà.
Sembra facile; ma non lo è. Se si riflette bene, ci si accorgerà che gli attuali Vescovi non sono stati scelti da Giovanni XXIII o da Paolo VI, ma da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Durante gli ultimi pontificati i Vescovi sono stati nominati con grande cura; eppure... Quando sono stati scelti, Tettamanzi o Schönborn — tanto per fare due nomi — passavano per conservatori; come mai oggi vengono annoverati fra i maggiori contestatori dell’autorità pontificia? C'è qualcosa che non va.
Non possiamo applicare alla Chiesa gli schemi propri di una impresa o di uno stato: la Chiesa è qualcosa di diverso. Ci sono alcuni cattolici che pensano alla Chiesa come a una monarchia assoluta, nella quale esiste un unico sovrano (il Papa), e i Vescovi sono i suoi funzionari (una specie di prefetti). Ma questa non è la Chiesa. Le diocesi non sono le “province” della Chiesa; esse stesse sono “Chiese” a tutti gli effetti (le Chiese particolari); e i Vescovi sono i loro legittimi pastori, successori degli Apostoli. Che nella Chiesa ci sia poi una Chiesa particolare con il suo Vescovo, che hanno un primato rispetto alle altre Chiese e agli altri Vescovi, è un dato di fatto, che però non sopprime la piena “ecclesialità” delle singole diocesi. Piú che parlare di “sottomissione”, sarebbe opportuno parlare di piena “comunione” fra le singole Chiese particolari e di queste con la Chiesa di Roma. È ovvio che tale comunione è una comunione gerarchica, che prevede l’accettazione del primato non solo onorifico, ma giurisdizionale del Romano Pontefice.
Anche questo potrebbe apparire un bel discorso astratto, ma difficile da attuarsi nella pratica. Certamente; ma penso che, una volta chiariti i principi, non sia poi impossibile trovare gli strumenti per armonizzare le diverse esigenze. Tra tali strumenti mi pare che la Chiesa ne possieda uno, preziosissimo, che essa ha sempre proposto alla società civile, ma che sembra faccia fatica ad applicare a sé stessa. Si chiama “principio di sussidiarietà”. Tale principio viene cosí descritto da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno:
«Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, cosí è ingiusto rimettere a una maggiore e piú alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe piú che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con piú libertà, con piú forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto piú perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto piú forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche piú felice e piú prospera la condizione dello Stato stesso» (nn. 80-81).
Parole sante, che non valgono solo per lo Stato, ma anche per la Chiesa. Se vogliamo che nella Chiesa ci sia ordine (“l’ordine gerarchico”), se vogliamo che l’autorità sia rispettata e possa svolgere le sue funzioni, non dobbiamo centralizzare, ma delegare. La Santa Sede non può esautorare i singoli Vescovi; la Segreteria di Stato non può sostituirsi alle Conferenze episcopali; ciascuno deve fare la sua parte, in piena armonia col resto del corpo. È ovvio che ci saranno sempre delle tensioni; è inevitabile che ci sia diversità di valutazione. Per questo è importante che ci sia un continuo dialogo, una condivisione dei problemi, una disponibilità al reciproco confronto; ma mai l’esautoramento, la delegittimazione, l’accentramento. Tali atteggiamenti dànno solo l’impressione di una immediata efficacia; ma, in realtà, distruggono la comunione e rendono piú difficile l’esercizio dell’autorità. L’autorità superiore, come ci ricorda Pio XI, deve sostenere quella inferiore, non distruggerla. Il ruolo della Curia Romana è quello di aiutare, incoraggiare, talvolta correggere i Vescovi e le Conferenze episcopali; non quello di sostituirsi a loro.