Un lettore mi fa notare che, nell’editoriale di Avvenire del 21 ottobre, Salvatore Mazza ha scritto: «Certo, per la Chiesa cattolica sarebbe stato facile ricorrere a soluzioni piú semplici, come una qualche forma di “uniatismo”». E mi chiede: «Ma che significa? Non le sembra offensivo per i nostri fratelli Cattolici Orientali? Ma che cos’è questo disprezzo per l’uniatismo?».
Anch’io mi chiedo che cosa intendesse Mazza con la sua affermazione, che non mi pare per nulla chiara. Non mi sembra però di ravvisare nelle sue parole alcunché di offensivo nei confronti dei nostri fratelli orientali. Anche se — va riconosciuto — oggi è diventato abbastanza di moda guardare con un certo disprezzo a tale forma di ecumenismo “d’altri tempi”.
Sappiamo che gli ortodossi hanno sempre rifiutato categoricamente il fenomeno uniate, e lo considerano come uno degli ostacoli sul cammino ecumenico. E non c’è da meravigliarsi: nella loro concezione ecclesiologica, è impensabile che sullo stesso territorio ci possano essere piú giurisdizioni. L’Oriente è “territorio canonico” della Chiesa ortodossa; non possono esistere, in quelle regioni, altre Chiese, siano esse di rito latino o anche orientale; un cristiano nell’Est non può che essere ortodosso. Anche se poi, abbastanza incomprensibilmente, loro stessi hanno in Occidente i loro Vescovi che assistono pastoralmente i fedeli ortodossi. Chiedo: l’Occidente non dovrebbe essere “territorio canonico” della Chiesa latina?
L’uniatismo è stato il modo in cui la Chiesa cattolica “ha fatto ecumenismo” nel passato, fino al Concilio. Questo è importante ricordarlo, perché talvolta sembra che la preoccupazione per l’unità dei cristiani sia nata col Vaticano II. Non è affatto vero: la Chiesa ha sempre sentito vivo l’anelito verso l’unità; solo, lo ha perseguito con modalità diverse da quelle odierne. Anziché avere colloqui ecumenici con le altre confessioni (allora semplicemente impensabili), la Chiesa cattolica ristabiliva la piena comunione con alcuni gruppi di cristiani appartenenti a quelle confessioni: in alcuni casi (in Oriente), conservando gli elementi caratteristici della loro tradizione; in altri casi (in Occidente), ristabilendo una gerarchia parallela di rito romano (nei paesi protestanti); in alcuni casi (come in Inghilterra), facendo attenzione a non dare alle sedi vescovili lo stesso nome di quelle anglicane: il Vescovo cattolico di Londra, per esempio, non si chiama in questo modo, ma “Arcivescovo di Westminster” (che è il nome di un quartiere di Londra).
Che giudizio esprimere oggi sul fenomeno uniate? Personalmente, ritengo che le Chiese sui juris (questo è il loro nome tecnico, secondo il Codice dei canoni delle Chiese orientali) svolgano un ruolo importantissimo: esse dimostrano che l’unità (un unità — si badi bene — che non è sinonimo di uniformità e appiattimento) è possibile. È possibile conservare le proprie tradizioni e, allo stesso tempo, vivere in piena comunione con il Romano Pontefice. Ma non penso che questo sia solo il mio pensiero. Perché lo stesso Concilio, al di là delle sue semplicistiche interpretazioni posteriori, ha valorizzato moltissimo le Chiese orientali. Tanto è vero che soltanto negli anni recenti, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato promulgato un Codice di diritto canonico esclusivamente per loro.
Tali Chiese cattoliche orientali sono d’intralcio al cammino ecumenico? Non lo credo proprio. Se ci sono dei cattolici che si sentono profondamente solidali con i loro fratelli non-cattolici appartenenti allo stesso rito, questi sono proprio i cattolici orientali. Che poi ci possano essere delle beghe a livello locale, riguardanti magari le proprietà, è vero; ma queste cose esistono da che mondo è mondo anche fra i cattolici o fra gli stessi ortodossi.
Il problema vero è capire che cosa si intenda per ecumenismo. Se ecumenismo significa incontrarsi semplicemente per discutere e pregare insieme, e poi ciascuno continua ad andare per la propria strada, mi chiedo a che cosa serva tale ecumenismo. Faccio un esempio, tratto proprio dal caso anglicano: non avrebbero dovuto gli anglicani, prima di introdurre certe novità, come il sacerdozio e l’episcopato alle donne, interrogarsi sulle conseguenze “ecumeniche” che tali decisioni avrebbero avuto? No, sono andati per la loro strada, infischiandosene non solo delle reazioni all’interno della loro Chiesa, ma anche della tradizione seguita da cattolici e ortodossi. Tanto per far notare la differenza di stile, vi siete accorti di come la Chiesa cattolica in questa ultima vicenda sia stata attenta alle motivazioni ecumeniche? Teoricamente, essa avrebbe potuto permettere che i Vescovi anglicani sposati, rientrando nella Chiesa cattolica, potessero essere ordinati Vescovi rimanendo sposati. No, per ragioni di carattere ecumenico e storico non lo ha permesso. Questo si chiama ecumenismo; non l’ecumenismo alla “tarallucci e vino”.
Per tornare all’affermazione di Mazza, dicevo che non mi è per nulla chiara. Che significa dire che la Chiesa avrebbe potuto scegliere soluzioni piú semplici “come una qualche forma di uniatismo”? A me sembra — posso sbagliarmi — che la decisione papale di istituire “ordinariati personali” per gli anglicani che chiedono di rientrare nella piena comunione con Roma sia esattamente “una qualche forma di uniatismo”. Ed è per questo che essa è stata digerita con difficoltà, a quanto pare, sia dagli anglicani (nonostante la dichiarazione congiunta di Londra), sia dall’episcopato cattolico britannico, sia soprattutto dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (assente alla conferenza stampa dell’altro giorno in Vaticano).
Leggo ora con immenso piacere, sul blog di Sandro Magister Settimo cielo, che John Henry Newman «aveva studiato un piano per creare una sorta di Chiesa anglicana “uniate”, simile a quelle di rito orientale unite a Roma. Il piano aveva l’appoggio del cardinale Manning, all’epoca arcivescovo di Westminster». Praticamente si tratta della medesima soluzione da me auspicata in questo blog (la costituzione di una Chiesa cattolica sui juris di rito anglicano); una soluzione che però probabilmente è ancora prematura. Prematura perché non esistono ancora Chiese sui juris in Occidente; le uniche esistenti sono quelle orientali. Ma non vedo che cosa possa impedire la costituzione di simili Chiese anche in Occidente. Personalmente ritengo che sia l’unica soluzione del problema ecumenico: dare alle comunità separate la possibilità di rientrare nella piena comunione con Roma, conservando le loro tradizioni. Ma comunque diamo tempo al tempo. Per il momento, vanno benissimo gli “ordinariati personali”.
Personalmente ritengo che la decisione del Papa sia veramente importante (qualcuno l’ha chiamata “storica”), perché segna una svolta nell’ecumenismo. È come se Benedetto XVI, dopo aver preso atto degli scarsi risultati raggiunti in questi anni dall’ecumenismo ufficiale, dicesse: “OK, è ora di cambiare registro”. Non riusciremo forse a ristabilire la piena comunione con la Comunione anglicana nel suo insieme (ma come è possibile questo dopo le scelte che essa ha fatto?); ma almeno possiamo ristabilire la piena comunione con alcuni gruppi anglicani. Mi sembra una posizione ragionevole, perché segna il ritorno a una delle caratteristiche che ha sempre contraddistinto Chiesa cattolica e che negli anni recenti sembrava un tantino offuscata: il realismo. L’ottimo è sempre stato nemico del bene: in questi anni ci siamo illusi che fosse possibile ristabilire l’unità con le Chiese e le comunità non-cattoliche semplicemente sedendoci intorno a un tavolo. Dopo quarant’anni, è giunta l’ora di tirare le somme. Quel che si è fatto finora certamente non è stato inutile: forse il risultato ottenuto oggi non sarebbe stato possibile senza quei colloqui, che hanno dimostrato che le differenze non sono poi cosí grandi. Ma non ci si può dimenticare che, oltre alle questioni dogmatiche, ci sono tanti altri elementi (di carattere storico, politico, emotivo, ecc.) che si frappongono sul cammino verso l’unità. Era necessario rompere gli indugi. Benedetto XVI l’ha fatto. È come se avesse detto: Rinunciamo pure a una ipotetica unità universale, che appare sempre piú astratta e lontana; e accontentiamoci di una unità reale, possibile, con quei gruppi che desiderano e sono nella condizione di vivere in comunione con la Chiesa cattolica. Un risultato parziale, ma sicuro, di fronte a prospettive forse affascinanti, ma sempre piú evanescenti.
Anch’io mi chiedo che cosa intendesse Mazza con la sua affermazione, che non mi pare per nulla chiara. Non mi sembra però di ravvisare nelle sue parole alcunché di offensivo nei confronti dei nostri fratelli orientali. Anche se — va riconosciuto — oggi è diventato abbastanza di moda guardare con un certo disprezzo a tale forma di ecumenismo “d’altri tempi”.
Sappiamo che gli ortodossi hanno sempre rifiutato categoricamente il fenomeno uniate, e lo considerano come uno degli ostacoli sul cammino ecumenico. E non c’è da meravigliarsi: nella loro concezione ecclesiologica, è impensabile che sullo stesso territorio ci possano essere piú giurisdizioni. L’Oriente è “territorio canonico” della Chiesa ortodossa; non possono esistere, in quelle regioni, altre Chiese, siano esse di rito latino o anche orientale; un cristiano nell’Est non può che essere ortodosso. Anche se poi, abbastanza incomprensibilmente, loro stessi hanno in Occidente i loro Vescovi che assistono pastoralmente i fedeli ortodossi. Chiedo: l’Occidente non dovrebbe essere “territorio canonico” della Chiesa latina?
L’uniatismo è stato il modo in cui la Chiesa cattolica “ha fatto ecumenismo” nel passato, fino al Concilio. Questo è importante ricordarlo, perché talvolta sembra che la preoccupazione per l’unità dei cristiani sia nata col Vaticano II. Non è affatto vero: la Chiesa ha sempre sentito vivo l’anelito verso l’unità; solo, lo ha perseguito con modalità diverse da quelle odierne. Anziché avere colloqui ecumenici con le altre confessioni (allora semplicemente impensabili), la Chiesa cattolica ristabiliva la piena comunione con alcuni gruppi di cristiani appartenenti a quelle confessioni: in alcuni casi (in Oriente), conservando gli elementi caratteristici della loro tradizione; in altri casi (in Occidente), ristabilendo una gerarchia parallela di rito romano (nei paesi protestanti); in alcuni casi (come in Inghilterra), facendo attenzione a non dare alle sedi vescovili lo stesso nome di quelle anglicane: il Vescovo cattolico di Londra, per esempio, non si chiama in questo modo, ma “Arcivescovo di Westminster” (che è il nome di un quartiere di Londra).
Che giudizio esprimere oggi sul fenomeno uniate? Personalmente, ritengo che le Chiese sui juris (questo è il loro nome tecnico, secondo il Codice dei canoni delle Chiese orientali) svolgano un ruolo importantissimo: esse dimostrano che l’unità (un unità — si badi bene — che non è sinonimo di uniformità e appiattimento) è possibile. È possibile conservare le proprie tradizioni e, allo stesso tempo, vivere in piena comunione con il Romano Pontefice. Ma non penso che questo sia solo il mio pensiero. Perché lo stesso Concilio, al di là delle sue semplicistiche interpretazioni posteriori, ha valorizzato moltissimo le Chiese orientali. Tanto è vero che soltanto negli anni recenti, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato promulgato un Codice di diritto canonico esclusivamente per loro.
Tali Chiese cattoliche orientali sono d’intralcio al cammino ecumenico? Non lo credo proprio. Se ci sono dei cattolici che si sentono profondamente solidali con i loro fratelli non-cattolici appartenenti allo stesso rito, questi sono proprio i cattolici orientali. Che poi ci possano essere delle beghe a livello locale, riguardanti magari le proprietà, è vero; ma queste cose esistono da che mondo è mondo anche fra i cattolici o fra gli stessi ortodossi.
Il problema vero è capire che cosa si intenda per ecumenismo. Se ecumenismo significa incontrarsi semplicemente per discutere e pregare insieme, e poi ciascuno continua ad andare per la propria strada, mi chiedo a che cosa serva tale ecumenismo. Faccio un esempio, tratto proprio dal caso anglicano: non avrebbero dovuto gli anglicani, prima di introdurre certe novità, come il sacerdozio e l’episcopato alle donne, interrogarsi sulle conseguenze “ecumeniche” che tali decisioni avrebbero avuto? No, sono andati per la loro strada, infischiandosene non solo delle reazioni all’interno della loro Chiesa, ma anche della tradizione seguita da cattolici e ortodossi. Tanto per far notare la differenza di stile, vi siete accorti di come la Chiesa cattolica in questa ultima vicenda sia stata attenta alle motivazioni ecumeniche? Teoricamente, essa avrebbe potuto permettere che i Vescovi anglicani sposati, rientrando nella Chiesa cattolica, potessero essere ordinati Vescovi rimanendo sposati. No, per ragioni di carattere ecumenico e storico non lo ha permesso. Questo si chiama ecumenismo; non l’ecumenismo alla “tarallucci e vino”.
Per tornare all’affermazione di Mazza, dicevo che non mi è per nulla chiara. Che significa dire che la Chiesa avrebbe potuto scegliere soluzioni piú semplici “come una qualche forma di uniatismo”? A me sembra — posso sbagliarmi — che la decisione papale di istituire “ordinariati personali” per gli anglicani che chiedono di rientrare nella piena comunione con Roma sia esattamente “una qualche forma di uniatismo”. Ed è per questo che essa è stata digerita con difficoltà, a quanto pare, sia dagli anglicani (nonostante la dichiarazione congiunta di Londra), sia dall’episcopato cattolico britannico, sia soprattutto dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (assente alla conferenza stampa dell’altro giorno in Vaticano).
Leggo ora con immenso piacere, sul blog di Sandro Magister Settimo cielo, che John Henry Newman «aveva studiato un piano per creare una sorta di Chiesa anglicana “uniate”, simile a quelle di rito orientale unite a Roma. Il piano aveva l’appoggio del cardinale Manning, all’epoca arcivescovo di Westminster». Praticamente si tratta della medesima soluzione da me auspicata in questo blog (la costituzione di una Chiesa cattolica sui juris di rito anglicano); una soluzione che però probabilmente è ancora prematura. Prematura perché non esistono ancora Chiese sui juris in Occidente; le uniche esistenti sono quelle orientali. Ma non vedo che cosa possa impedire la costituzione di simili Chiese anche in Occidente. Personalmente ritengo che sia l’unica soluzione del problema ecumenico: dare alle comunità separate la possibilità di rientrare nella piena comunione con Roma, conservando le loro tradizioni. Ma comunque diamo tempo al tempo. Per il momento, vanno benissimo gli “ordinariati personali”.
Personalmente ritengo che la decisione del Papa sia veramente importante (qualcuno l’ha chiamata “storica”), perché segna una svolta nell’ecumenismo. È come se Benedetto XVI, dopo aver preso atto degli scarsi risultati raggiunti in questi anni dall’ecumenismo ufficiale, dicesse: “OK, è ora di cambiare registro”. Non riusciremo forse a ristabilire la piena comunione con la Comunione anglicana nel suo insieme (ma come è possibile questo dopo le scelte che essa ha fatto?); ma almeno possiamo ristabilire la piena comunione con alcuni gruppi anglicani. Mi sembra una posizione ragionevole, perché segna il ritorno a una delle caratteristiche che ha sempre contraddistinto Chiesa cattolica e che negli anni recenti sembrava un tantino offuscata: il realismo. L’ottimo è sempre stato nemico del bene: in questi anni ci siamo illusi che fosse possibile ristabilire l’unità con le Chiese e le comunità non-cattoliche semplicemente sedendoci intorno a un tavolo. Dopo quarant’anni, è giunta l’ora di tirare le somme. Quel che si è fatto finora certamente non è stato inutile: forse il risultato ottenuto oggi non sarebbe stato possibile senza quei colloqui, che hanno dimostrato che le differenze non sono poi cosí grandi. Ma non ci si può dimenticare che, oltre alle questioni dogmatiche, ci sono tanti altri elementi (di carattere storico, politico, emotivo, ecc.) che si frappongono sul cammino verso l’unità. Era necessario rompere gli indugi. Benedetto XVI l’ha fatto. È come se avesse detto: Rinunciamo pure a una ipotetica unità universale, che appare sempre piú astratta e lontana; e accontentiamoci di una unità reale, possibile, con quei gruppi che desiderano e sono nella condizione di vivere in comunione con la Chiesa cattolica. Un risultato parziale, ma sicuro, di fronte a prospettive forse affascinanti, ma sempre piú evanescenti.